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lunedì 25 settembre 2017

La nostra sola speranza è un cambiamento sistemico guidato dal risveglio morale

Da “Ecowatch”. Traduzione di MR




Di Richard Heinberg

Il nostro problema ecologico centrale non è il cambiamento climatico. E' l'overshoot (superamento), del quale il cambiamento climatico è un sintomo. L'overshoot è un problema sistemico. Nell'ultimo secolo e mezzo, quantità enormi di energia  a buon mercato proveniente dai combustibili fossili ha permesso una crescita rapida dell'estrazione di risorse, della produzione e del consumo; e queste a loro volta hanno portato alla crescita della popolazione, all'inquinamento ed alla perdita di habitat naturale e quindi di biodiversità.

Il sistema umano si è drasticamente espanso, superando la capacità di carico a lungo termine della Terra per gli esseri umani, sconvolgendo nel mentre i sistemi ecologici da cui dipendiamo per la sopravvivenza. Finché non comprendiamo ed affrontiamo questo squilibrio sistemico, il trattamento sintomatico (fare quello che possiamo per invertire problemi di inquinamento come il cambiamento climatico, cercare di salvare specie in estinzione e sperare di dar da mangiare ad una popolazione in crescita con colture geneticamente modificate) si rivelerà un ciclo infinitamente frustrante di misure  di ripiego che alla fine sono destinate al fallimento.

Il movimento ecologico degli anni 70 ha beneficiato di una forte infusione di pensiero sistemico, che era in voga al tempo (l'ecologia – lo studio delle relazioni fra gli organismi e i loro ambienti – è una disciplina intrinsecamente sistemica, contrariamente a studi come la chimica che si concentra sulla riduzione dei fenomeni complessi alle parti che li costituiscono). Di conseguenza, molti dei migliori scrittori ambientali di quel periodo inquadravano la moderna situazione umana difficile in termini che hanno rivelato i collegamenti profondi fra sintomi ambientali e il modo in cui opera la società. “I limiti dello sviluppo” (1972), il prodotto della ricerca sistemica di Jay Forrester, ha investigato le interazioni fra crescita della popolazione, produzione industriale, produzione di cibo, esaurimento delle risorse ed inquinamento. “Overshoot” (1982) di William Catton, ha dato il nome al nostro problema sistemico e descritto le sue origini e il suo sviluppo in uno stile apprezzabile da ogni persona colta. Potrebbero essere citati molti altri libri eccellenti di quel periodo.

Tuttavia, negli ultimi decenni, man mano che il cambiamento climatico è giunto a dominare le preoccupazioni ambientali, c'è stato un passaggio significativo nella discussione. Oggi, la maggioranza dei servizi sull'ambiente è concentrato come un laser sul cambiamento climatico e i collegamenti sistemici fra questo ed altri problemi ambientali in via di peggioramento (come sovrappopolazione, estinzione di specie, inquinamento di acqua ed aria e perdita di suolo ed acqua potabile) vengono raramente evidenziati. Non che il cambiamento climatico non sia un grosso problema. Come sintomo, è veramente unico. Non c'è mai stato niente del genere e gli scienziati del clima e i gruppi che sostengono una risposta al cambiamento climatico fanno bene a suonare l'allarme più forte possibile. Ma non capire il cambiamento climatico nel contesto potrebbe essere la nostra rovina.

Perché chi scrive di ambiente e le organizzazioni che lo sostengono hanno ceduto ad una visione col paraocchi? Forse è solo perché pensano che il pensiero sistemico sia al di là delle capacità dei politici. E' vero: se gli scienziati del clima dovessero rivolgersi ai capi mondiali col messaggio, “dobbiamo cambiare tutto, compreso l'intero sistema economico – e velocemente”, potrebbero mostrar loro la porta in modo piuttosto rude. Un messaggio più accettabile è, “abbiamo identificato un grave problema di inquinamento, per cui ci sono soluzioni tecniche”. Forse molti degli scienziati che hanno riconosciuto la natura sistemica della nostra crisi ecologica hanno concluso che se possiamo affrontare con successo questa crisi ambientale da "o la va o la spacca", saremo in grado di guadagnare tempo per affrontare le altre che aspettano dietro le quinte (sovrappopolazione, estinzione di specie, esaurimento delle risorse e così via).

Se il cambiamento climatico può essere inquadrato come problema isolato e per cui c'è una soluzione tecnologica, le menti degli economisti e dei politici possono continuare a pascolare in pascoli famigliari. La tecnologia – in questo caso i generatori elettrici, solare, eolico e nucleare, così come batterie, auto elettriche, pompe di calore e, se tutto il resto viene a mancare, gestione della radiazione solare tramite aerosol atmosferici – centra il nostro pensiero su temi come l'investimento finanziario e la produzione industriale. I partecipanti alla discussione non devono sviluppare la capacità di pensare in modo sistemico, né devono capire il sistema terrestre e come i sistemi umani vi si adattino. Tutto ciò di cui devono preoccuparsi è la prospettiva di spostare qualche investimento, stabilire compiti per gli ingegneri e gestire la relativa trasformazione industriale-economica in modo da assicurare che i nuovi posti di lavoro nelle industrie verdi compensino quelli persi nelle miniere di carbone.

La strategia di guadagnare tempo con le soluzioni tecnologiche presume che saremo in grado di istituire il cambiamento sistemico ad un certo punto del futuro non meglio identificato, anche se non possiamo farlo proprio subito (apparentemente un argomento debole) o che il cambiamento climatico e tutte le nostre altre crisi sintomatiche, saranno di fatto gestibili con soluzioni tecnologiche. La seconda linea di pensiero è, ancora una volta, confortevole per gestori e investitori. Dopotutto, tutti amano la tecnologia. Fa già quasi tutto per noi. Nell'ultimo secolo ha risolto un bel po' di problemi: ha curato malattie, aumentato la produzione di cibo, velocizzato i trasporti e ci ha fornito informazione ed intrattenimento in quantità e varietà che nessuno aveva mai immaginato prima. Perché non dovrebbe essere capace di risolvere il cambiamento climatico e il resto dei nostri problemi?



Naturalmente, ignorare la natura sistemica del nostro dilemma significa soltanto che non appena riusciamo a confinare un sintomo, è probabile che se ne liberi un altro. Ma il punto cruciale è: il cambiamento climatico, preso come problema isolato, è del tutto trattabile con la tecnologia? Definitemi pure scettico. Dico questo dopo aver passato molti mesi a studiare attentamente i dati pertinenti con David Fridley del progetto di analisi energetica al Laboratorio Nazionale Lawrence di Berkeley. Il risultato, il nostro libro Il nostro futuro rinnovabile, concludeva che l'energia nucleare è troppo costosa e rischiosa; solare ed eolico soffrono entrambi di intermittenza, il che (una volta che queste fonti cominciano a fornire una grande percentuale dell'energia elettrica totale) richiederà una combinazione di tre strategie su vasta scala: immagazzinamento dell'energia, capacità produttiva ridondante e adattamento della domanda. Allo stesso tempo, noi nazioni industriali dovremo adattare gran parte del nostro attuale uso di energia (che avviene nei processi industriali, costruzioni, riscaldamento e trasporti) all'elettricità. Nel complesso, la transizione energetica promette di essere un'impresa enorme, senza precedenti nei suoi requisiti di investimento e sostituzione. Quando David e io abbiamo fatto un passo indietro per valutare l'enormità dell'impresa, non riuscivamo a vedere un modo di mantenere le attuali quantità di produzione globale di energia durante la transizione, tanto meno di aumentare le forniture energetiche di modo da alimentare la crescita economica in corso.  Il più grande ostacolo alla transizione è la scala: il mondo usa attualmente un'enorme quantità di energia, solo se quella quantità può essere ridotta in modo significativo, specialmente nelle nazioni industriali, potremmo immaginare un percorso credibile verso un futuro post carbonio.

Ridurre le forniture energetiche mondiali diminuirebbe, di fatto, anche i processi industriali di estrazione delle risorse, produzione, trasporto e gestione dei rifiuti. Si tratta di un intervento sistemico, esattamente del tipo invocato dagli ecologisti degli anni 70 che hanno coniato il mantra “Riduci, riusa, ricicla”. Va dritto al cuore del problema dell'overshoot – come la stabilizzazione e la riduzione della popolazione, un'altra strategia necessaria. Ma è anche un'idea alla quale i tecnocrati, gli industriali e gli investitori sono violentemente allergici.

La discussione ecologica è, in fondo, una discussione morale – come spiego più in dettaglio in un manifesto appena pubblicato pieno di inserti laterali e grafici. ("Non ci sono app per questo: tecnologia e moralità nell'era del cambiamento climatico, della sovrappopolazione e della perdita di biodiversità”). Tutti i pensatori sistemici che comprendono l'overshoot e prescrivono lo spegnimento come trattamento si stanno efficacemente impegnando in un intervento contro un comportamento di dipendenza. La società è drogata di crescita e questo sta avendo conseguenze terribili per il pianeta e, sempre di più, anche per noi. Dobbiamo cambiare il nostro comportamento collettivo ed individuale e mollare qualcosa da cui dipendiamo – il potere sul nostro ambiente. Dobbiamo darci una regolata, come un alcolizzato che si proibisce di bere. Questo richiede onestà e ricerca dell'anima.

Nei suoi primi anni, il movimento ambientalista poneva questa questione morale e fino ad un certo punto ha funzionato. La preoccupazione per la rapida crescita della popolazione ha portato a tentativi di pianificazione famigliare in tutto il mondo. La preoccupazione per il declino della biodiversità ha portato alla protezione degli habitat. La preoccupazione per l'inquinamento dell'aria e dell'acqua ha portato ad una sfilza di regole. Questi sforzi non sono stati sufficienti, ma hanno mostrato che inquadrare il nostro problema sistemico in termini morali riesce a dare perlomeno un po' di spinta.
Perché il movimento ambientalista non ha avuto pieno successo? Alcuni teorici che ora si definiscono “verde chiaro” o “eco modernisti” hanno abbandonato la battaglia morale completamente. La loro giustificazione per averlo fatto è che le persone vogliono una visione del futuro che sia allegra e che non richieda sacrifici. Ora, dicono, solo una soluzione tecnologica offre tutte le speranze. Il punto essenziale di questo saggio (e del mio manifesto) è semplicemente che, anche se le questioni morali falliscono, una soluzione tecnica a sua volta non funzionerà. Un gigantesco investimento in tecnologia (che sia la prossima generazione di reattori nucleari o la geoingegneria delle radiazioni solari) viene annunciato come l'ultima speranza Ma in realtà non è affatto una speranza.

La ragione del fallimento ad oggi del movimento ambientalista non è stata l'aver fatto appello ai sentimenti morali dell'umanità – che di fatto è stata la più grande forza del movimento. Il tentativo è fallito perché non è stato capace di cambiare il principio organizzativo centrale della società industriale, che è anche il suo errore fatale: la sua ricerca accanita di crescita a tutti i costi. Ora ci troviamo al punto in cui dobbiamo finalmente o riuscire a superare il “crescismo” o affrontare il fallimento, non solo del movimento ambientalista, ma della stessa civiltà.

La buona notizia è che il cambiamento sistemico è frattale in natura: comporta, di fatto richiede, azione ad ogni livello della società. Possiamo cominciare dalle nostre scelte e comportamento individuali; possiamo lavorare all'interno delle nostre comunità. Non dobbiamo aspettare un cambiamento catartico globale o nazionale. Ed anche se in nostri sforzi non possono “salvare” la civiltà industriale consumista, possono ancora riuscire a piantare i semi di una cultura umana rigenerativa che vale la sopravvivenza.

C'è un'altra buona notizia: una volta che noi esseri umani scegliamo di ridurre il nostro numero e i nostri tassi di consumo, la tecnologia può assistere i nostri sforzi. Le macchine possono aiutarci a monitorare il nostro progresso e ci sono tecnologie relativamente semplici che possono aiutare a fornire i servizi necessari con minor uso di energia e minor danno ambientale. Alcuni modi di sviluppare la tecnologia potrebbero aiutarci a pulire l'atmosfera e ripristinare gli ecosistemi.

Ma le macchine non possono fare le scelte cruciali che ci porranno su un sentiero sostenibile. Il cambiamento sistemico guidato dal risveglio morale: non è solo l'ultima speranza, è la sola vera speranza che abbiamo mai avuto.

giovedì 8 dicembre 2016

Trump: verso lo “Scenario 3”

Da “Cassandra's Legacy”. Traduzione di MR

Margarita Mediavilla ed i suoi collaboratori hanno svolto delle simulazioni del futuro usando i modelli della dinamica dei sistemi (vedete qui). Uno dei loro scenari, denominato “Scenario 3”, è basato sull'ipotesi di un ritorno della competizione fra nazioni, del protezionismo, della deglobalizzazione e cose simili. Lo Scenario 3 è il meno costoso in termini di energia richiesta, ma anche il più dannoso a livello ambientale. E, con l'elezione di Trump, sembra che ci stiamo dirigendo esattamente in quella direzione. Che altro vi sareste aspettati? (UB)

 
Di Margarita Mediavilla

La vittoria di Donald Trump, così come molte altre cose che sono avvenute in anni recenti (l'ascesa dell'estrema destra in Europa, il crollo del mercato asiatico, la Brexit, la guerra in Siria e in Yemen), mostra che stiamo seguendo il sentiero dello Scenario 3. Non avrebbe potuto essere diversamente, visto che i nostri “scenari” erano narrazioni che abbiamo usato per intravedere il futuro e l'energia ci ha detto che lo Scenario 3 era quello più realistico.

venerdì 18 novembre 2016

Jay Forrester: l'uomo che ha visto il futuro

Da “Cassandra's Legacy”. Traduzione di MR


Jay Wright Forrester (1918-2016) potrebbe essere stato la fonte di ispirazione per Hari Seldon, un personaggio inventato della serie della Fondazione di Isaac Asimov. Nei racconti di Asimov, Seldon sviluppa “le equazioni psicostoriche” che gli permettono di prevedere il collasso imminente dell'Impero Galattico. Nel mondo reale, Forrester ha sviluppato le equazioni della dinamica dei sistemi” che gli hanno permesso di prevedere il collasso imminente della moderna civiltà umana. Le previsioni sono state ignorate dai poteri imperiali di entrambi gli universi, quello della finzione e quello reale. 

Jay Forrester, una delle grandi menti del XX secolo, è morto a 98 anni qualche giorno fa. La sua carriera è stata lunga e fruttuosa e possiamo dire che il suo lavoro ha cambiato la storia intelletuale dell'umanità in diversi modi, in particolare per il ruolo che ha avuto nella nascita del rapporto al Club di Roma “I limiti dello sviluppo”.

Nel 1969, Forrester era un membro della facoltà del MIT quando ha incontrato Aurelio Peccei in Italia. A quel tempo, Peccei aveva già fondato il Club di Roma, i cui membri erano preoccupati dai limiti delle risorse naturali che la terra poteva fornire. Stavano cercando di capire quali conseguenze ci sarebbero per l'umanità. Da quello che scriveva Peccei, sembrava chiaro che vedesse la situazione in gran parte in termini malthusiani, pensando che la popolazione umana sarebbe cresciuta fino al raggiungimento dei limiti delle risorse e poi sarebbe rimasta lì, tenuta sotto controllo da carestie ed epidemie. La principale preoccupazione di Peccei e del Club di Roma  era quella di evitare la sofferenza umana assicurando una distribuzione equa di quello che c'era a disposizione.

martedì 3 maggio 2016

Decrescita: cosa ci possiamo aspettare esattamente?

i limiti della decrescita
No, mi spiace, non so cosa succede sotto.
Tutti conoscono, o dovrebbero conoscere, “I limiti della crescita”, ma oggi credo che studiare i limiti della decrescita sarebbe ancor più interessante.   Quasi 50 anni or sono, infatti, si cominciavano ad avvertire i primi sintomi del graduale impatto con i limiti della crescita, mentre oggi si avvertono chiaramente le avvisaglie di una decrescita che sappiamo inevitabile, ma della quale non sappiamo molto.

Sempre più gente cerca di scrutare il futuro, ma la nebbia è davvero molto fitta. Neppure il formidabile Word3 ci può aiutare molto.   Se, infatti, la fase ascendente delle curve si è dimostrata molto affidabile, la fase discendente sappiamo già che non lo è affatto.   Lo sappiamo perché lo dissero chiaro e tondo, fin da subito, gli autori.   Per di più, il modello incorpora una teoria (la transizione demografica) che descrive efficacemente la crescita di una popolazione umana, mentre si è dimostrata del tutto inaffidabile nel descriverne anche solo le prime fasi del declino.
Dunque su cosa ci possiamo basare per fare delle ipotesi che non siano del tutto campate in aria?   Che io sappia non esistono, ad oggi, modelli affidabili di decrescita.   Esiste però una vasta conoscenza di come funzionano i sistemi complessi e su questa base si può lavorare. Non pretendo certo qui di sviscerare un problema così complicato.   Sarei già molto contento di riuscire a sollevare la questione affinché se ne occupasse chi dispone dei mezzi tecnici e finanziari necessari per affrontarlo in modo approfondito.

Da dove possiamo partire

Direi che i punti di partenza potrebbero essere i seguenti.
1 – Non abbiamo modelli di decrescita testati, ma sappiamo che il comportamento dei sistemi tende a restare costante fintanto che le condizioni al contorno lo consentono.   Quando si superano delle soglie, la medesima struttura produce effetti diversi, talvolta opposti, in ragione della diversa interazione con i sotto-sistemi a monte ed a valle.   Per fare un esempio pratico, il credito è un fattore di crescita economica fintanto l’estrazione di risorse è facile e lo stoccaggio dei rifiuti non comporta retroazioni che danneggiano in qualche modo il sistema economico stesso.    Viceversa, in un contesto in cui l’estrazione di risorse dall’ambiente diventa difficoltosa; oppure l’inquinamento comincia a produrre “effetti collaterali” consistenti, il credito diventa un efficiente sistema per distruggere la ricchezza accumulata durante la fase di crescita.
Il fatto interessante è che miglioramenti sostanziali nelle tecnologie possono modificare in maniera importante i tempi con cui avviene questa evoluzione, ma non possono in alcun caso modificare il destino finale del sistema.   Solo una sostanziale modifica nella struttura interna del medesimo potrebbe farlo.
2 - Sappiamo che la freccia del tempo è irreversibile (perlomeno a scala super-atomica).    Dunque la decrescita  potrà anche presentare situazioni diciamo “vintage”, ma sarà comunque un fenomeno del tutto sconosciuto e sorprendente.   Certamente non sarà il film della crescita girato al contrario poiché tutte le condizioni al contorno sono cambiate irreversibilmente.   Per fare un esempio banale, non torneremo a “vivere come i nostri nonni”, come talvolta si sente dire.   Rispetto ad un secolo fa c’è il quadruplo della gente, la metà della terra fertile e delle foreste, una minima parte dell’acqua potabile, i principali banchi di pesca sono estinti, eccetera.   Non ultimo, nessuno o quasi sa più fare le cose che sapevano fare loro.  E se è vero che è possibile imparare, è anche vero che questo richiede tempo.
3 - Da almeno 50.000 anni, l’evoluzione tecnologica ha drasticamente modificato i rapporti fra la nostra specie ed il resto dell’ecosistema.   In pratica, abbiamo trovato il modo di superare costantemente i limiti impostici dall’ambiente tramite lo sviluppo di tecnologie più efficienti.   Attenzione!   Questo è un punto fondamentale.   Il fatto che la nostra popolazione continui ad aumentare viene spesso citato come prova che, in realtà, non abbiamo ancora raggiunto i limiti della crescita possibile.   Qualcuno ipotizza addirittura che non li raggiungeremo mai perché il progresso tecnologico è un prodotto dell’inventività umana che si suppone inesauribile. Questo ragionamento è però viziato da un errore di fondo.    La tecnologia consente infatti di estrarre una percentuale maggiore di risorse a nostro vantaggio, ma ciò provoca un degrado dell’ecosistema.   In altre parole, la tecnologia ci consente di strizzare più forte il limone,  ma non di aumentare il succo che c’è.  Catton chiamava questo fenomeno “Capacità di carico fantasma”.
4 – La crescita economica e quella tecnologica sono due elementi strettamente sinergici che formano una delle retroazioni più forti della nostra storia.   Ed entrambe hanno trainato la crescita demografica.
Man mano che la decrescita economica prenderà piede, questa retroazione continuerà presumibilmente a funzionare, ma non sappiamo bene in che modo.   Da un lato, infatti, ci dobbiamo aspettare che, riducendosi la ricchezza disponibile, le tecnologie più costose dovranno essere man mano abbandonate per tornare a tecnologie meno sofisticate, ma anche più economiche e robuste.   D’altronde, tecnologie meno spinte sono anche meno efficienti nell’estrazione delle risorse che, nel frattempo, si sono degradate e rarefatte. Per fare un solo esempio, il primo pozzo di petrolio fu trivellato a Titusville a circa 19 metri di profondità, utilizzando una trivella estremamente rudimentale.   Oggi siamo arrivati a perforare rocce a chilometri di profondità, ma ciò è stato possibile perché l’energia “facile” ci ha messi in condizione di sfruttare quella via via più difficile.   Siamo così passati da pozzi profondi decine di metri, ad altri di centinaia ed infine di chilometri senza soluzione di continuità.   Ma se la retroazione si interrompesse, ad esempio per una grave crisi economica od una guerra che comporta l’abbandono delle tecnologie d’avanguardia, non saremmo mai in grado di recuperare, semplicemente perché le risorse raggiungibili con tecnologie più semplici non esistono più.
D’altronde, le conoscenze accumulate nella fase ascendente non saranno dimenticate tanto presto.   Anche a fronte di crisi estremamente gravi, una parte consistente del patrimonio scientifico e tecnico sopravvivrebbe a lungo.    Diciamo che, probabilmente, siamo oggi nella fase di “picco del sapere”, ma la decrescita culturale sarà presumibilmente più graduale di quella economica grazie all’inerzia rappresentata dalle scuole e dai libri.   Altri tipi di supporto, in particolare quelli informatici di ultima generazione, rischiano invece di svanire molto rapidamente a fronte di un netto peggioramento nelle condizioni economiche e, dunque, nella disponibilità di energia e nella manutenzione delle reti.
5 – Il processo di decrescita avverrà presumibilmente per catastrofi di diverso ordine e grado.   Questo si può arguire dal fatto che tutti gli sforzi dell’umanità sono concentrati nel mantenimento dello status quo e molti dei tecnocrati che se ne occupano sono persone di grandissima professionalità.   Questo tende ad irrigidire il sistema che, anziché adattarsi al mutare delle condizioni al contorno, reagisce per restare il più possibile uguale e se stresso.   Ciò consente di ritardare la decrescita, ma quando ciò non è più possibile il processo di riequilibrio avviene in maniera rapida e solitamente traumatica.    Insomma, la storia dell’elastico che, tirato troppo, si spezza facendo male a chi lo tiene.

Dunque, quanta decrescita ci aspetta?

A quanto pare, alcuni sono stati molto bravi a capire quanta crescita ci sarebbe stata nei decenni scorsi.   Ma quanta sarà la decrescita nei decenni a venire?   Le ipotesi variano da una stabilizzazione dell’economia e della popolazione a livelli addirittura superiori all’attuale (la cosiddetta “stagnazione secolare” di cui parla l’FMI), fino alla completa estinzione del genere umano.
Due ipotesi del tutto antitetiche che hanno in comune un punto fondamentale: portare alle estreme conseguenze una serie di fenomeni in corso o previsti a breve.    Nel primo caso si spera che la popolazione si stabilizzi per una graduale riduzione della natalità, mentre la tecnologia potrebbe trovare il modo di garantire una vita decente più o meno a tutti.  Nel secondo caso, si suppone invece che il collasso dell’economia globalizzata e/o il riscaldamento del clima generino delle retroazioni capaci di sterminare completamente la più resiliente e adattabile delle specie viventi.
Entrambi gli scenari non tengono conto del fatto che i cambiamenti provocati da una retroazione in un sottosistema  cambiano i rapporti di questo con il meta-sistema di cui fa parte.   Ciò significa che è probabile che la forza relativa delle diverse retroazioni in azione cambino in rapporto alla dimensione della popolazione, la disponibilità di risorse, la resilienza degli ecosistemi, l’evoluzione del clima e molto altro ancora.

Consideriamo quindi alcuni punti solamente.

Primo punto: la capacità di carico fantasma.
Capacità di carico fantasmaLasciando da parte la più fantasiosa delle due ipotesi (stabilizzazione simile all’attuale), occupiamoci della seconda.    Questa si basa infatti su di una molto verosimile retroazione positiva fra decrescita economica → minore accesso alla risorse → decrescita della popolazione.   In pratica, la decrescita comporta una riduzione della capacità di estrarre a nostro vantaggio bassa entropia dall’ambiente, il che genera ulteriore decrescita.
Questo anello spinge effettivamente verso l’estinzione, ma ne esistono contemporaneamente altri.   Ad esempio: maggiore mortalità → minore pressione sulle risorse residue → riduzione dell'inquinamento → parziale recupero della biosfera → minore mortalità.   Questo secondo anello tende evidentemente a contrastare il precedente.  Personalmente, penso che il primo (destabilizzante) sarà predominante in questo secolo, mentre il secondo (stabilizzante) acquisterà forza man mano che la pressione antropica si ridurrà.
Nessuna previsione, naturalmente.   Solo l’osservazione che, probabilmente, il sistema tenderà ad un nuovo equilibrio una volta che la popolazione e l’economia si saranno contratte in misura sufficiente.   Ovviamente, al netto di altre forzanti quali, ad esempio, un eventuale evoluzione del clima del tipo “sindrome di Venere”.   Possibile, ma per ora solo un’ipotesi.
Secondo punto: Gradiente energetico.
gradiente energeticoUn altro aspetto della questione, che si interfaccia strettamente col precedente, è quello dell’energia.   Dal momento che la crescita economica e demografica è dipesa interamente o quasi da disponibilità crescenti di energia pro capite, appare evidente che al calare di questo parametro dovrà diminuire anche la popolazione.   Ma non possiamo sapere di quanto perché giocano due ordini di fattori contrastanti ed è arduo decidere quale dei due prevarrà.   Non è neanche detto che la stessa cosa debba accadere in tutte le zone del mondo.
Il primo ordine di fattori è che le tecnologie e conoscenze attuali potrebbero permettere una produttività superiore a quella registrata in passato, a parità di energia pro capite. Il secondo è che il degrado subìto dalle risorse riduce la produttività, sempre  a parità di energia utile disponibile.
Di solito, la questione dell’energia del futuro viene discussa a colpi di valutazioni circa quello che si potrebbe estrarre, dati certi parametri che variano secondo gli autori.   Cambiando i parametri (ad es. se si considera o meno l’esauribilità di determinati minerali), cambiano notevolmente le stime.
Personalmente non sono in grado di verificare tali valutazioni, ma vedo una difficoltà intrinseca al tipo di energie che si voglio sfruttare.

Per fare qualunque cosa, è necessario far fluire energia lungo un gradiente: cioè da dove è più concentrata a dove lo è meno.   Le energie fossili di buona qualità e l’idroelettrico posizionato bene hanno una cosa in comune: sono forme di energia che hanno il grado di concentrazione, e dunque un gradiente, ottimale.   Basta prenderle e dissiparle per i nostri scopi.   Un gradiente minore riduce più che proporzionalmente il rendimento, mentre un gradiente maggiore aumenta il rischio di incidente.
Viceversa, sole e vento, pur essendo quantitativamente molto più abbondanti, sono estremamente diffuse.   Occorre quindi prima concentrarle (dissipando altra energia già concentrata in precedenza) per poterla poi trasportare dove serve e dissipare per fare quel che vogliamo.   In pratica, un doppio passaggio che in nessun caso potrà quindi dare gli stessi risultati del passaggio singolo permessoci dalle fonti che abbiamo prevalentemente sfruttato negli ultimi 200 anni. Ciò non significa che sole, vento eccetera siano inutili.   Anzi, proprio il fatto che l’economia industriale subirà un drastico ridimensionamento, forse un collasso, rendono preziosi degli oggetti che potranno mitigare gli effetti della decrescita almeno per alcuni decenni.
Terzo punto: la ruralizzazione.
ruralizzazioneUn altro aspetto della medesima questione è rappresentato dal tipo di insediamento umano del futuro.   Man mano che l’economia industriale procederà a perdere pezzi, è probabile che una massa crescente di persone cercheranno salvezza in campagna.   Un fenomeno che forse sta cominciando proprio in questi anni.   Un processo possibile,ma la densità mondiale attuale è di una persona ogni circa 2000 mq di terreno agricolo, che stanno diminuendo di giorno in giorno.   La media europea è analoga ed anche questa in rapido calo.   Un ritorno massiccio all’agricoltura ed un riallineamento a standard di vita analoghi a quelli dei contadini poveri attuali rappresenta quindi uno scenario di decrescita possibile, ma non per tutti.
Anche in questo caso, è facile prevedere almeno alcune retroazioni, di segno opposto.   Un primo anello spingerebbe verso un’accelerazione della decrescita: decrescita economica → aumento della popolazione rurale → maggiore pressione sulle aree marginali e le foreste → degrado del territorio → ulteriore decrescita economica.    Molti entusiasti dell’orto domestico non condivideranno questo punto, ma l’esperienza di tutte le epoche e di tutte i paesi lo conferma.

Tuttavia, anche in questo caso, sono possibili anche anelli tendenti a stabilizzare il sistema.   Per esempio: riduzione degli standard di vita → contese per il controllo delle zone migliori e dell’acqua → riduzione/scomparsa dei servizi sanitari moderni → decrescita demografica → miglioramento degli standard di vita.

Sono molti i fattori che spingerebbero per una rapida decrescita demografica, cosa che a sua volta ridurrebbe la pressione sugli ecosistemi e la competitività territoriale, oltre a mitigare la miseria.
In altre parole, più rapido il declino numerico, più alto il livello di relativo equilibrio che si potrebbe raggiungere, al netto di altri fattori qui non considerati (clima, guerre, epidemie, ecc.).

Conclusioni.

Profeta di malaugurioNoi profeti del malaugurio veniamo spesso accusati di avere un gusto perverso nell’annunciare catastrofi.   Generalmente no, ma possiamo dare questa impressione a causa dalla frustrazione.   Capita quando hai visto ignorati tutti gli avvertimenti lanciati quando c’era ancora il tempo di reagire ed evitare il peggio.   Comunque, cercando di essere il più razionali possibile, direi che la decrescita è inevitabile ed anzi è già cominciata, ma che difficilmente condurrà il genere umano all’estinzione.
A mio avviso, le difficoltà maggiori nell’indagare la decrescita sono due: la scala spaziale e quella temporale.
Per quanto riguarda la prima, abbiamo numerosissimi precedenti storici di decrescita e anche di collasso di popoli e civiltà, ma nessuno a livello globale.   In un modo costituito da un mosaico di organizzazioni scarsamente comunicanti, il collasso di una di esse può trovare mitigazione (ad es. tramite emigrazione) o aggravamento (a es. tramite invasione) dai suoi rapporti con i sistemi vicini.   Ma comunque non si può verificare il simultaneo collasso dell’intera umanità.  Il fatto che il collasso attuale stia avvenendo in un contesto globalizzato cambia radicalmente i termini della questione, almeno nelle fasi di avvio.   Da una parte, infatti, sta consentendo di mitigarne e rallentarne considerevolmente gli effetti. Dall’altra, rischia di portare all’inferno l’intera umanità quasi contemporaneamente.

Una seconda difficoltà inerente la scala spaziale, risiede proprio nel fatto che il principale effetto della prima fase di decrescita sarà la frammentazione del sistema globale in sotto-sistemi di varia misura.   Un processo che potrebbe reiterarsi fino alle estreme conseguenze o meno, a seconda di una miriade di fattori perlopiù locali.   Dunque diversi da zona a zona.
Per quanto riguarda la dimensione temporale, il problema è che avremo due curve in calo: quella della capacità di carico e quella della popolazione.   Cioè vivremo una specie di gara di corsa in cui la popolazione tenderà a stabilizzarsi su dei livelli tanto più alti, quanto più precoce e rapido sarà il decremento. Questo perché proprio la decrescita economica e la decrescita demografica sono forzanti che tendono a stabilizzare il sistema, mentre il degrado della Biosfera e l'alterazione del clima sono le principali forzanti che spingono verso l’annientamento umano.
Se davvero avessimo a cuore noi stessi, dirotteremmo tutte le risorse possibili verso la conservazione della Biosfera e del clima, anziché sulla nostra.   
Decisamente contro-intuitivo, ma spesso la Natura lo è.


lunedì 22 febbraio 2016

Parte il progetto europeo MEDEAS

Da “The Oil Crash”. Traduzione di MR 



di Antonio Turiel

Cari lettori,

nella giornata di oggi e domani l'Istituto di Scienze del Mare del CSIC ospita la riunione iniziale del progetto MEDEAS. MEDEAS (acronimo di Modelling Energy system Development under Environmental And Socioeconomic constraints – Modellizzazione dello sviluppo del sistema energetico nei limiti ambientali e socioeconomici) è un progetto europeo finanziato nel segno dello schema Orizzonte 2020 di finanziamento della ricerca europea. Questo progetto è coordinato dalla mia istituzione, più nello specifico dal mio collega Jordi Solé.

mercoledì 13 gennaio 2016

Il collasso della società mediterranea nell'Età del Bronzo: perché continuiamo a non capire le ragioni del collasso della civiltà

Da “Resource Crisis”. Con considerazioni introduttive e a seguito di Bodhi Paul Chefurka dalla sua pagina FB. Traduzione di MR

Il mondo è stato preda di una “catastrofe da uso eccessivo da parte degli umani” negli ultimi 65 anni, sin dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. La situazione è stata compresa chiaramente circa dal 1970, negli ultimi 45 anni. In quel periodo abbiamo visto l'erosione dei sistemi naturali nel mondo a tassi accelerati. Ora, è vero che non capiamo pienamente il collasso sociale, come evidenzia il professor Ugo Bardi in questa sua recensione:

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Il collasso della società mediterranea nell'Età del Bronzo: perché continuiamo a non capire il collasso della civiltà



Eric Cline ha scritto un libro eccellente sulla fine dell'Età del Bronzo nell'area mediterranea ma, sfortunatamente, non arriva ad una conclusione definita circa le ragioni del collasso. Cline suggerisce che “diversi fattori di stress” hanno lavorato insieme per assicurare la fine di questa civiltà. Ma questo è davvero deludente, a dir poco. E' come un giallo in cui, alla fine, ci viene detto che il killer della Signora in Rosso avrebbe potuto essere il professor Plum, la signora Peacock, la signora White, il reverendo Green o il colonnello Mustard ma, realmente, sembra che l'abbiano accoltellata tutti insieme, simultaneamente. 


Immaginate una squadra di archeologi che vivono fra tremila anni. Lavorano agli scavi delle vestigia di un'antica civiltà della costa orientale del Mar Mediterraneo, una regione i cui antichi abitanti chiamavano “Siria”. Gli archeologi scoprono prove chiare che la civiltà siriana è collassata in corrispondenza di una serie di disastri: una grave siccità, una guerra civile, la distruzione delle città da parte di incendi, invasori stranieri, una riduzione della popolazione ed altro. Le prove di questo evento sono chiare, ma ma cosa le ha causate esattamente? I nostri futuri archeologi sono sconcertati, sospettano che ci sia una singola ragione per questa coalescenza di disastri, ma non riescono a trovare prove di quale possa essere stata. Uno di loro propone che potrebbe aver avuto a che fare col fatto che gli antichi siriani stavano estraendo qualcosa del sottosuolo e lo usavano come fonte di energia. Ma, senza dati affidabili sulle tendenze di produzione, non sono in grado di provare che l'esaurimento del petrolio è stata la causa fondamentale del collasso siriano.

giovedì 30 luglio 2015

Problemi diabolici e soluzioni diaboliche: il caso della fornitura mondiale di cibo

Da “Resource Crisis”. Traduzione di MR

Di Ugo Bardi




Sono appena tornato da due giorni di full immersion ad un incontro su una cosa per me piuttosto nuova: la fornitura mondiale di cibo. Mi devo ancora riprendere. Ogni qualvolta si vada ad una certa profondità in qualsiasi cosa si vede quanto le cose siano immensamente più complesse in confronto all'ombra pallida del mondo che si percepisce dallo schermo scintillante della vostra TV. Tutto è complesso e tutto ciò che è complesso diventa diabolico una volta che si comincia a vederlo come un problema. E i problemi diabolici di solito generano soluzioni diaboliche (immagine da  Wikipedia)


Riuscite a pensare a qualcosa di peggio di un problema diabolico? Sì, è del tutto possibile: è una soluzione diabolica. Vale a dire, una soluzione che non solo non fa nulla per risolvere il problema ma, di fatto, lo peggiora. Sfortunatamente, se si lavora nella dinamica dei sistemi, spesso si apprende che gran parte dei sistemi complessi non sono solo terribili, ma soffre di soluzioni diaboliche (vedete, per esempio, qui).

Detto questo, passiamo ad uno dei problemi più diabolici a cui possa pensare: quello della fornitura mondiale di cibo. Qui cercherò di riportare almeno una parte di ciò che ho imparato alla recente conferenza su questo argomento, tenuta congiuntamente dalla FAO e sezione italiana della System Dynamics Society. Due giorni di discussioni tenutisi a Roma durante una mostruosa ondata di calore che ha messo a dura prova il sistema di aria condizionata della sala conferenze e reso la camminata da lì all'hotel un'impresa confrontabile alla camminata su un pianeta alieno: ciò ha portato la sensazione netta di aver bisogno di una tuta spaziale refrigerata. Ma è valsa la pena esserci.

Per prima cosa, è il caso di dire che la fornitura mondiale di cibo è un “problema”? Sì, se notate che circa la metà della popolazione umana mondiale è malnutrita, se non veramente affamata. E della metà rimanente, una grande percentuale non è nutrita nel modo giusto, perché l'obesità e il diabete di tipo II sono malattie in espansione – alla conferenza hanno detto che se la tendenza continua, nel futuro metà della popolazione mondiale soffrirà di diabete.

Quindi, se abbiamo un problema, è davvero “diabolico”? Sì, lo è, nel senso che trovare una buona soluzione è estremamente difficile e i risultati sono spesso l'opposto di quelli desiderati all'inizio. Il sistema alimentare mondiale è un sistema diabolicamente complesso e coinvolge una serie di sottosistemi collegati vicendevolmente che interagiscono fra loro. La produzione di cibo è una cosa, ma la fornitura di cibo è una storia del tutto diversa, che comporta trasporto, distribuzione, immagazzinamento, refrigerazione, fattori finanziari ed è condizionata da cambiamento climatico, conservazione del suolo, popolazione, fattori culturali... ed altro, compreso il fatto che le persone non mangiano semplicemente “calorie”, hanno bisogno di cibo, cioè una miscela bilanciata di nutrienti. In un sistema del genere, ogni cosa che si tocca si ripercuote su tutto il resto. E' un caso classico del concetto conosciuto in biologia come “non puoi fare una cosa sola”.

Una volta che ti fai una vaga idea della complessità del sistema di fornitura del cibo – come è possibile in due giorni di full immersion ad una conferenza – allora puoi anche capire quanto siano spesso scarsi e in malafede i tentativi di “risolvere il problema”. L'errore di fondo che quasi tutti fanno a questo punto (e non solo nel caso del sistema di fornitura del cibo) è cercare di linearizzare il sistema.

Linearizzare un sistema complesso significa che si agisce su un suo singolo elemento, sperando che tutto il resto non cambi di conseguenza. E' l'approccio “guarda, è semplice”, quello preferito dai politici (*). Recita così, “guarda, è semplice: facciamo semplicemente questo e il problema sarà risolto”. Quello che si intende per “questo” varia a seconda della situazione. Col sistema alimentare, spesso comporta qualche trucco tecnologico per aumentare i rendimenti agricoli. In altri ambienti comporta l'urlo a squarciagola “passiamo agli OGM!”.

Sfortunatamente, anche ipotizzando che i rendimenti agricoli possano essere aumentati in termini di calorie prodotte usando gli OGM (possibile, ma solo in sistemi agricoli industrializzati), allora il risultato è una cascata di effetti che si ripercuotono sull'intero sistema, di solito trasformando un sistema di produzione rurale resiliente in un sistema di produzione fragile e parzialmente industrializzato – per non dire niente del fatto che queste tecnologie spesso peggiorano le qualità nutrizionali del cibo. E ipotizzando che sia possibili aumentare i rendimenti, come si trovano le risorse finanziarie per costruire l'infrastruttura necessaria per gestire l'aumentato rendimento agricolo? Servono camion, frigoriferi, impianti di stoccaggio ed altro. Anche se si riuscisse a mettere insieme tutte queste cose, molto spesso il risultato è semplicemente quello di rendere il sistema più fragile e meno resiliente, vulnerabile agli shock esterni come l'aumento del costo di forniture come combustibili e fertilizzanti.

Ci sono altri esempi egregi di quanto sia profondamente errata la strategia “guarda, è semplice”. Uno è l'idea che possiamo risolvere il problema sbarazzandoci dello spreco di cibo. Ideona, ma come lo si può fare esattamente  e quanto costerebbe? (**) E chi pagherebbe per l'aggiornamento dell'intera infrastruttura di distribuzione? Un altro approccio “guarda, è semplice” è 'se diventassimo tutti vegetariani ci sarebbe moltissimo cibo per tutti'. In parte è vero, ma non è così semplice, a sua volta. Di nuovo, c'è una questione di distribuzione e trasporto e il fatto che i ricchi occidentali che comprano “cibo verde” nei loro supermercati ha un impatto minimo sulla situazione dei poveri nel resto del mondo. E quindi, alcuni tipi di cibo “verde” sono ingombranti e quindi difficili da trasportare, inoltre si rovinano facilmente e quindi serve refrigerazione e così via. Una cosa analoga vale per la strategia “cibo locale”. Come si affrontano le inevitabili fluttuazioni della produzione locale? Una volta, queste fluttuazioni erano causa di carestie periodiche che venivano accettate come un fatto della vita. Tornare a quello non è esattamente “risolvere il problema della fornitura di cibo”.

Un modo diverso di affrontare il problema è concentrato sulla riduzione della popolazione umana. Ma, anche qui, spesso facciamo l'errore “guarda, è semplice”. Cosa sappiamo esattamente sul meccanismo che genera la sovrappopolazione e come interveniamo su di esso? A volte, coloro che propongono questo approccio sembrano pensare che tutto ciò che dobbiamo fare è sganciare profilattici sui paesi poveri (se non altro, è meglio che sganciare bombe). Non è così facile, ma supponiamo che si possa ridurre la popolazione in modi non traumatici, poi si interviene in un sistema in cui “popolazione” significa un complesso misto di diverse nicchie sociali ed economiche: ci sono popolazioni urbane, periurbane e rurali. Una riduzione della popolazione potrebbe spostare le persone da un settore all'altro, potrebbe significare perdita di capacità produttive nelle aree rurali o, al contrario, una ridotta capacità di finanziare la produzione se si potesse diminuire la popolazione in aree urbane. Di nuovo, la riduzione della popolazione, di per sé, è un approccio lineare che non funzionerà come si pensa che faccia, anche se potesse essere implementata.

Di fronte alla complessità del sistema, ascoltando gli esperti che ne discutono, hai la raggelante sensazione che si tratti di un sistema davvero troppo difficile da afferrare per gli esseri umani. Si dovrebbe essere allo stesso tempo esperti in agricoltura, in logistica, in nutrizione, in finanza, in dinamiche della popolazione e molto altro. Una cosa che ho notato, come modesto esperto in energia e combustibili fossili, è quanto gli esperti di cibo di solito non si rendano conto che la disponibilità di combustibili fossili deve necessariamente diminuire nel prossimo futuro. Ciò avrà effetti spaventosi sull'agricoltura: pensate ai fertilizzanti, alla meccanizzazione, al trasporto, alla refrigerazione ed altro. Ma non ho visto questi effetti presi in considerazione  nella maggior parte dei modelli presentati. Diversi ricercatori hanno mostrato diagrammi che estrapolano le attuali tendenze per il futuro come se la produzione di petrolio dovesse continuare ad aumentare per il resto del secolo ed oltre.

La stessa cosa vale per il cambiamento climatico. Alla conferenza non ho sentito dire molto riguardo agli effetti estremi che un rapido cambiamento climatico potrebbe avere sull'agricoltura. E' comprensibile, abbiamo buoni modelli che ci dicono come aumenteranno le temperature e come condizioneranno alcuni sottosistemi del pianeta (per esempio i livelli del mare), ma nessun modello che possa dirci in che modo il sottosistema agricolo reagirà al variare dei modelli meteorologici, alle diverse temperature, alle siccità e alle alluvioni. Pensate solo a quanto i rendimenti agricoli in India siano profondamente collegati ai modelli annuali dei monsoni, e non si può che rabbrividire al pensiero di cosa potrebbe accadere se il cambiamento climatico li condizionasse.

Quindi l'impressione che ho avuto dalla conferenza è che nessuno sta realmente afferrando la complessità del problema; né a livello di singoli individui, né a livello di organizzazioni. Per esempio, non ho mai sentito un termine cruciale usato nelle dinamiche planetarie che è “overshoot” (superamento). Cioè, è vero che adesso siamo in grado di produrre più o meno cibo a sufficienza – misurato in calorie – per la popolazione attuale. Ma per quanto tempo saremo in grado di farlo? In diversi casi potrei descrivere gli approcci a cui ho assistito come il tentativo di aggiustare un orologio meccanico usando un martello. O di guidare un transatlantico usando uno stuzzicadenti incastrato nell'elica.

Ma ci sono anche elementi positivi che emergono dalla conferenza di Roma. Uno è che la FAO anche se è un'organizzazione grande ed a volte goffa comprende il fatto che la dinamica dei sistemi è uno strumento che potrebbe aiutare molto i politici a capire le conseguenze di quello che facciamo. E, probabilmente, ad aiutarli ad escogitare idee migliori per “risolvere il problema del cibo”. Ciò è più difficile di quanto sembri: la dinamica dei sistemi non è per tutti e insegnarla ai burocrati è come insegnare ai cani a risolvere equazioni: ci vuole tanto lavoro e non funziona tanto bene. Inoltre, i professionisti della dinamica dei sistemi spesso sono vittime della sindrome da “diagramma degli spaghetti”, che consiste nel disegnare modelli complessi pieni di scatoline e di freccette che vanno da una parte all'altra per poi guardare la confusione che hanno creato; annuendo in segno di grande soddisfazione interiore. Ma è anche vero che alla conferenza ho visto molta buona volontà fra i vari attori sul campo per trovare un linguaggio comune. E' una cosa buona, difficile, ma promettente.

Alla fine, qual è la soluzione al “problema della fornitura di cibo”? Se me lo chiedete, proverei a proporre un concetto: “in un sistema complesso, non ci sono né problemi né soluzioni. C'è solo cambiamento ed adattamento”. Come corollario, potrei dire che puoi risolvere un problema (o provarci) ma non puoi risolvere un cambiamento (nemmeno puoi provarci). Ti puoi solo adattare al cambiamento, preferibilmente in un modo non traumatico.

Visto in questo senso, il miglior modo di affrontare l'attuale situazione della fornitura di cibo è quello di non cercare soluzioni impossibili (terribili) (per esempio gli OGM), ma di aumentare la resilienza del sistema. Ciò comporta lavorare a livello locale ed interagire con tutti gli attori che lavorano nel sistema di fornitura di cibo. E' un approccio ragionevole. La FAO lo sta già seguendo e può assicurare una fornitura ragionevole anche in presenza di inevitabili shock che stanno per arrivare in conseguenza dei problemi di cambiamento climatico e di fornitura di energia. La dinamica dei sistemi può essere di aiuto? Probabilmente sì. Naturalmente, c'è molto lavoro da fare, ma la conferenza di Roma è stata un buon inizio.


H/t: Stefano Armenia, Vanessa Armendariz, Olivio Argenti e tutti gli organizzatori della conferenza congiunta Sydic/FAO  a Roma.

Note

* Una volta che si affronta il problema del cibo, non si può ignorare la situazione del “terzo mondo”. Di conseguenza, la conferenza non è stata solo fra occidentali ed il dibattito ha preso un aspetto più ampio che ha anche coinvolto diversi modi di vedere il mondo. Una discussione particolarmente interessante che ho avuto è stata con una ricercatrice messicana. Secondo lei, “linearizzare” i problemi complessi è una caratteristica tipica (e piuttosto diabolica) del modo di pensare occidentale. Lei ha contrastato questa visione lineare con l'approccio “circolare” che, secondo lei, è tipico delle antiche culture mesoamericane, come i Maya ed altri. Quell'approccio, ha detto, potrebbe aiutare molto il mondo ad affrontare problemi diabolici senza peggiorarli. Riporto semplicemente la sua opinione, personalmente non ho conoscenza sufficiente per giudicarla. Tuttavia, mi sembra vero che ci sia qualcosa di diabolico nel modo in cui il pensiero occidentale tenda a plasmare tutto a sua immagine. 

** Nel sistema alimentare, l'idea che “guarda, è semplice: liberiamoci semplicemente degli sprechi” è esattamente parallela all'approccio “rifiuti zero” per i rifiuti urbani ed industriali. Ho una certa esperienza in questo settore e posso dirvi che, nel modo in cui spesso viene proposta, l'idea di “rifiuti zero” semplicemente non può funzionare. Comporta costi alti e rende semplicemente il sistema sempre più fragile e vulnerabile agli shock. Ciò non significa che i rifiuti siano inevitabili, niente affatto. Se si non può costruire un sistema industriale a “rifiuti zero” si possono costruire sottosistemi che possono gestire quei rifiuti. Questi sottosistemi, tuttavia, non possono funzionare usando la stessa logica del sistema industriale standard, devono essere adattati per funzionare su risorse a basso rendimento. In pratica, è l'approccio della “gestione partecipata” (vedete, per esempio, il lavoro del professor Gutberlet). Si può fare coi rifiuti urbani, ma anche con lo spreco di cibo ed è un altro modo per aumentare la resilienza del sistema.





lunedì 7 febbraio 2011

Stiamo giocando alla roulette russa con la testa dei nostri figli


Questo è un filmato di una conferenza di John Sterman, il successore al Massachussets Institute of Technology di Jay Forrester, l'inventore della "dinamica dei sistemi," il metodo di calcolo alla base dello studio noto come "I Limiti dello Sviluppo".

Questa conferenza di John Sterman dura un'ora e mezzo in puro American-English (e le immagini le dovete cercare in un file separato). Ma, se potete, fatevi un piacere: guardatelo. (se non potete guardarlo tutto, guardate i primi 15 minuti e poi il discorso finale a 1h 10 min)

La conferenza è ricca di spunti interessantissimi, per esempio quello che "stiamo giocando alla roulette russa con la testa dei nostri figli" oppure la citazione di Stevenson che da il titolo alla presentazione "un banchetto di conseguenze" al quale tutti quanti, prima o poi si devono sedere. E molte altre cose, come per esempio l'azzeccatissima comparazione fra la questione del cambiamento climatico e quella dell'abolizione della schiavitù. Anche quest'ultima cosa è stata molto difficile, costosa e qualcuno diceva che avrebbe rovinato l'economia degli Stati Uniti.

Fra le tante cose, la presentazione mette in luce un punto fondamentale. Il cambiamento climatico è una cosa complicata, che richiede studio e specializzazione. Ma, se non siete un climatologo con esperienza, non importa - potete lo stesso capire le basi della faccenda se la vedete nel modo giusto.

Così, Sterman che non è un climatologo ma uno scienziato dei sistemi, ha capito benissimo quali sono gli elementi del sistema climatico: gli stock, i flussi e i feedback. E con quelli, ha capito i concetti di fondo e li spiega in questo film con una chiarezza eccezionale.

Il cambiamento climatico non è una questione di modelli; non è una questione di una piccola perturbazione, non è una cosetta che si risolve con qualche palliativo. E' una profonda alterazione dei cicli di feedback planetari che ci sta portando in un mondo enormente diverso da quello che conosciamo. Questo, lo si capisce con la dinamica dei sistemi.

E non è nemmeno un complotto dei climatologi. John Sterman non lo è, ma ha capito l'importanza e l'urgenza di muoversi per cercare di far passare il messaggio. Un dovere che molti di noi hanno sentito e stanno tuttora sentendo.

Sterman porta le sue competenze nel dibattito e i risultati sono - purtroppo - agghiaccianti. La dinamica dei sistemi non soltanto un metodo per fare modelli di sistemi fisici; è un modo di pensare. E chi lavora nella dinamica dei sistemi si accorge presto che la maggioranza delle persone - incluso e specialmente i "decision makers" - non sono in grado di visualizzare mentalmente neanche sistemi semplici come una vasca da bagno che si riempie da una parte e si svuota da un altra. Non ce la fanno proprio a visualizzare un sistema complesso di feedback come lo è il clima terrestre.

Facciamo ancora in tempo a insegnare a tutti - o perlomeno a una frazione importante della popolazione - come funziona il cambiamento climatico? Sterman ci sta provando; forse ormai è troppo tardi, ma dobbiamo continuare a provare.