venerdì 10 giugno 2016

Mai gridare al lupo! La peggior previsione climatica mai fatta

Da “Cassandra's Legacy”. 9 Giugno 2016, Traduzione di MR

Se ti metti a gridare "al lupo!" e il lupo non viene, fai una gran figuraccia. Ma ne farai una ben peggiore se non gridi "al lupo!" e poi il lupo arriva.



Il professor Nicola Scafetta mostra le sue previsioni del 2010 delle temperature globali (da Meteo Live News) ). Queste previsioni si sono rivelate sbagliate in modo spettacolare. 


di Ugo Bardi

Il dibattito su qualsiasi cosa abbia a che fare col futuro spesso diventa una versione particolare della storia di “gridare al lupo”. Immaginate che qualcuno gridi al lupo a che il lupo non arrivi. Qualcun'altro concluderà sempre che il lupo non esiste (o che è una cosa di cui non ci dovremmo preoccupare). Una cosa simile avviene in aree come la scienza del clima quando le incertezze del passato vengono prese come indicazione che il cambiamento climatico non esiste (o che è una cosa di cui non ci dovremmo preoccupare).

Davvero, è una perversione della logica, ma ha le sue ragioni. Supponete che l'apparizione dei lupi sia un fenomeno relativamente raro. A questo punto, anche se non sapete quasi niente sui lupi, è una scommessa facile: sarete molto più popolari coi pastori se dite loro che il lupo non verrà. E, di solito, sarete in grado di affermare che avevate ragione, eccetto quando il lupo arriva, ovviamente. Ma, in quel caso, è probabile che i pastori saranno molto più occupati a salvare le loro pecore che a castigare voi per la vostra incompetenza in materia di lupi.

Una cosa simile sembra accadere con la scienza del clima, dove un sacco di gente, che di solito sa molto poco sulla scienza del clima, tende a rassicurare la gente che il cambiamento climatico non esiste o che non è niente di cui preoccuparsi. Nella misura in cui le case sul lungomare di solito non vengono spazzate via ogni settimana da uragani e dal livello del mare che aumenta, questi previsori rassicuranti possono affermare di aver avuto ragione.

Ma a volte anche i castigatori di Cassandre potrebbero avere un momentaccio quando cercano di fare previsioni quantitative. Un caso rimarchevole è quello di Nicola Scafetta, che ha cercato di usare un sofisticato trattamento statistico (vale a dire: torturiamo i dati finché non confessano) per provare che il riscaldamento globale è causato principalmente dai cicli planetari a lungo termine. Sulla base dei suoi modelli, nel 2010, ha previsto che le temperature globali avrebbero dovuto rimanere costanti o avrebbero dovuto diminuire. Mentre nel 2012 avva previsto che le temperature avrebbero dovuto aumentare ad un tasso molto più lento di quello previsto dai modelli climatici standard. Su queste previsioni, aveva ottenuto una certa notorietà in rete.

Be', se esistesse un premio per le peggiori previsioni climatiche, penso che queste di Scafetta potrebbero legittimamente concorrervi. Le temperature globali hanno rifiutato di seguire le sue previsioni ed hanno di fatto superato il risultato dei modelli del IPCC che Scafetta aveva criticato.

Giudicate voi stessi. Sotto potete vedere i risultati presentati da Scafetta nel 2010 (N. Scafetta. I cicli climatici e le loro implicazioni. Periodico semestrale dell’Associazione Normalisti. n.2 dicembre 2010) (vedete anche questo link; le temperature recenti sono state aggiunte in rosso):



Alcune previsioni più recenti di Scafetta sono un po' meglio, ma ancora ampiamente fuori bersaglio (le temperature recenti sono state aggiunte in rosso):


Quindi ecco la conclusione: visto che abbiamo prove fisiche solide che i lupi esistono (a differenza dei draghi e degli unicorni), è meglio dare ascolto a coloro che vi dicono che le vostre pecore potrebbero essere in pericolo. Allo stesso modo, visto che abbiamo prove fisiche solide che i gas serra provocano riscaldamento e che la loro concentrazione sta aumentando, è meglio dare ascolto a coloro che vi dicono che la vostra proprietà in riva al mare è in pericolo (e non solo quella!). 

Riconoscimento: Stefano Caserini ha preparato le figure mostrate in questo articolo.

Nota: questo articolo è stato indotto da un dibattito che ho avuto oggi con Nicola Scafetta alla conferenza AIGE-IIETA 2016 di Napoli. Nel suo discorso, Scafetta ha passato gran parte del suo tempo a criticare i modelli climatologici standard, dicendo che non riproducono bene i dati storici e che sono affetti da grandi incertezze. Ha detto che questi modelli in gran parte esagerano la sensitività climatica al CO2, anche se ha affermato di non negare che i gas serra abbiano un effetto sulle temperature. Poi, ha mostrato i risultati dei suoi modelli confrontati coi dati storici, ma sempre fermando il confronto al 2012 o al 2013. ha anche detto che secondo alcuni nuovi lavori che ha fatto, lui crede che Giove abbia un forte effetto sulle temperature terrestri. 

Nel mio commento, ho mostrato al pubblico i dati che pubblico in questo post ed ho chiesto a Scafetta come può giustificare tali errori lampanti. Scafetta ha detto che sono dati vecchi e che ora ha modelli nuovi. Ho risposto dicendo che non può cambiare le sue ipotesi ogni anno ed ogni anno fingere di fare previsioni affidabili. Lui ha ripetuto che il suo modello ora funziona. Poi, il moderatore ha detto che dovevamo fermarci ed ha raccomandato a tutti cautela nel credere ai modelli. Ed è finita lì!

giovedì 9 giugno 2016

Gli alieni siamo noi.


Gli alieni siamo noi.


di Max Strata





No, a compromettere ogni giorno di più la biodiversità e la tenuta degli ecosistemi naturali presenti sul nostro pianeta, non sono strani mostri venuti da qualche remoto pianeta della nostra galassia nè una specie che giunge in superficie dalla profondità della terra.

Non è in corso nessun guerra dei mondi immaginata da H.G. Wells, nè il tentativo della Spectre di impossessarsi del pianeta a costo di far fuori gli esseri viventi che lo abitano.

Gli unici responsabili di quanto stà avvenendo siamo noi, la specie umana.

In effetti, uno degli aspetti più complicati da riconoscere e da accettare quando si parla di cambiamento climatico e delle attività maggiormente impattanti sul pianeta, è proprio la varietà e la drammaticità degli effetti che le nostre azioni stanno provocando a livello globale e che sono drasticamente destinate ad aumentare nel prossimo futuro se non poniamo immediatamente un freno a ciò che stiamo combinando.

Rachel Warren, scienziata del dipartimento di studi ambientali dell’Università dell’East Anglia e titolare di una importante ricerca recentemente pubblicata nella sezione Climate Change della rivista Nature, nel descrivere l'esito degli studi effettuati sul rapporto tra cambiamento climatico e sopravvivenza di specie animali e vegetali, pone l'accento sul fatto che mentre di solito l’attenzione si è focalizzata sulla scomparsa delle specie più rare o su quelle che sono a rischio di estinzione, non si parla di cosa sta accadendo alle specie più comuni e diffuse.

In assenza di concrete politiche di riduzione dell’emissione dei gas serra, l'articolo evidenzia come alla fine di questo secolo circa metà delle piante e un terzo degli animali attualmente conosciuti potrebbero essere estinti.

La causa di questa gigantesca perdita di biodiversità, è dovuta alla sensibile riduzione, o addirittura alla scomparsa, dei loro habitat naturali, ovvero dei luoghi dove queste specie nascono, vivono e si riproducono. Un collasso che, spiega la ricercatrice, potrebbe avere un effetto a catena con violente ripercussioni economiche dovute al mutamento dei modelli agricoli, all’inquinamento dell’acqua e al peggioramento della qualità dell’aria respirabile.

La ricerca si basa sull’analisi di oltre 50 mila specie di piante e di animali e i risultati dicono che solo il 4% delle specie animali – e nessuna pianta – beneficerebbero dell’aumento della temperatura.

Le ripercussioni sulla nostra specie sarebbero pertanto gravissime in quanto una perdita così diffusa della biodiversità su scala globale è destinata ad impoverire i servizi naturali che gli ecosistemi ci rendono gratuitamente: purificazione dell’acqua e dell’aria, prevenzione delle inondazioni, nutrimento per il suolo, insomma tutti quei cicli biogeochimici che sono essenziali per la vita sul pianeta e che noi consideriamo scontati ma che non lo sono affatto.

Accanto a questo studio è opportuno citare anche l'aggiornamento dell'inventario del rischio di estinzione delle singole specie, la cosiddetta "Lista Rossa" che viene redatta dall'I.U.C.N., e il quadro che ne emerge è desolante.

Su 672 specie di vertebrati prese in considerazione (576 terrestri e 96 marine), quasi un terzo sono a rischio di estinzione in tempi brevi.

Oggi la concentrazione di CO2 presente in atmosfera ha raggiunto e superato le 400 parti per milione che corrispondono al 142% in più rispetto al livello preindustriale, mentre gli altri principali gas ad effetto serra, il metano e l'ossido di azoto, sono rispettivamente aumentati del 253% e del 121% rispetto ai livelli anteriori a1 1750, raggiungendo un record che non si registrava da oltre 3 milioni di anni (ben prima della comparsa dell’Homo sapiens sulla Terra).

A causa di questi gas, fondamentali, per garantire la vita sul pianeta attraverso l'effetto serra ma deleteri oltre una certa soglia, oggi, la capacità della Terra di trattenere la radiazione solare è aumentata del 34% rispetto al 1990: una percentuale enorme e inimmaginabile fino a pochi anni fa.

Il cambiamento climatico è dunque ormai una minaccia per la biodiversità globale e secondo i calcoli effettuati dal T.E.E.B. (The Economics of Biodiversity and Ecosystem Services), il programma mondiale dell'O.N.U. che prova a misurare il valore economico della natura, l'impatto che le attività umane producono sulle risorse e sui sistemi naturali, ha ormai un costo di oltre 7.300 miliardi di dollari all'anno.

Per Robert Wilson, ricercatore dell'Università di Exeter nel Regno Unito e co-autore di un recente studio internazionale pubblicato dal prestigioso Proceedings of National Academy of Sciences in cui ha analizzato dati provenienti da tutto il mondo, emerge come gli effetti del riscaldamento globale sono ormai riscontrabili in ogni parte del pianeta, in ogni gruppo di animali e di piante: dagli uccelli, ai vermi, ai mammiferi marini, dalle alte catene montuose, alle giungle ed agli oceani.

Fra i casi citati nello studio, spicca l’esempio della riduzione, nel Mare di Bering, di alcuni molluschi bivalvi fonte principale di cibo per le specie al culmine della catena alimentare di quelle zone. Queste piccole conchiglie, nell’arco di soli due anni, a causa dell’assottigliamento della copertura di ghiaccio sui loro mari, si sono ridotte di ¾ passando da 12 a 3 per metro quadrato, un fatto che verosimilmente provocherà non pochi guasti agli equilibri ecologici di quell'area.

I tassi di estinzione attuali confrontati con quelli misurati attraverso lo studio dei fossili, indicano che oggi perdiamo un numero di specie da 10 a 100 volte superiore a quello registrato nei periodi storici e che in pratica, stiamo vivendo un’estinzione generalizzata di massa.

L'uso dei combustibili fossili ed il nostro “non negoziabile stile di vita” fatto di incessate urbanizzazione e distruzioone di luoghi natutali, ne sono la causa.

Negli ultimi decenni, l'impatto delle attività antropiche sull'equilibrio biologico dell'ambiente marino e sulla ricchezza della sua fauna è stato devastante.

I fenomeni di inquinamento diffuso, la cementificazione delle coste, la distruzione delle paludi costiere, il traffico navale, la pesca intensiva e i mutamenti climatici in corso, hanno decimato gli stock ittici e continuano ad impoverire la biodiversità marina ad un ritmo impressionante.

E' stato calcolato che su scala globale, la cattura di pesce selvatico si è fermata ai livelli dei primi anni novanta del XX secolo, ovvero a circa 90 milioni di tonnellate l'anno, mentre la F.A.O. ha dichiarato che 70 delle 200 più importanti specie marine sono a rischio di estinzione.

Nei cinque continenti, il numero dei pescatori di professione è aumentato vertiginosamente e in modo differente, così, mentre in alcune zone del pianeta questo si è ridotto, in altre si è decuplicato, passando complessivamente da circa 13 milioni a oltre 30 milioni di persone dedite a questa attività.

Tuttavia non sempre è possibile effettuare delle previsioni puntuali sulla base dei dati attualmente a disposizione. Le risorse ittiche sono incostanti dato che in mare la produttività e la predazione oscillano in modo molto diverso che sulla terra ferma, in quanto la biomassa varia moltissimo in relazione alle modificazioni che avvengono nelle correnti, nella quantità di nutrienti e nella temperatura.

Rispetto ad alcuni segnali che quindi risultano non facili da interpretare, alcuni studi mirati indicano comunque come negli oceani lo zooplancton sia diminuito in modo significativo e che senza efficaci controlli praticati su scala internazionale, gran parte delle risorse ittiche potrà arrivare al collasso entro la metà di questo secolo.

Uno dei principali problemi è legato al meccanismo dei segnali deboli che arrivano dalle profondità del mare prima che il tracollo si manifesti.

E' noto infatti che le curve di rendimento delle risorse ittiche sono piuttosto piatte e ciò può determinare un aumento della pesca per diversi anni prima che i livelli di cattura diminuiscano in modo vertiginoso e in tempi molto stretti.

Soprattutto per le specie facilmente identificabili con le moderne tecnologie di ricerca, il segnale debole suggerisce erroneamente una generale abbondanza, spesso legata a concentrazioni locali, mentre in realtà il sovrasfruttamento ha già raggiunto il suo apice.

Come scrive Jorgen Randers nel suo “2052: Rapporto al Club di Roma” (8), "Il pescatore che ha catturato l'ultimo grande banco di merluzzo nell'area del George's Bank al largo della costa settentrionale degli Stati Uniti, torna a casa soddisfatto, la sua barca è piena fino all'orlo e dice alla moglie che è andato tutto bene, senza sospettare che in realtà quella era la sua ultima battuta di pesca".

Su scala locale le analisi e le previsioni sono decisamente più puntuali.

Nel caso del Mediterraneo, sulla base dei dati raccolti dal Comitato tecnico, scientifico ed economico della pesca europea (STECF), la coalizione OCEAN 2012 ha chiaramente evidenziato come il 95% degli stock ittici risultano sovrasfruttati.

Secondo le ricerche effettuate per ripristinare il livello di sostenibilità degli stock, in particolare nel Tirreno centrale e meridionale, nell'Adriatico meridionale e nello Ionio, è infatti necessario ridurre il prelievo attuale di circa il 50%, con punte del 90% per la pesca al nasello in alcune aree.

Nel grafico che segue le curve mostrano i diversi possibili livelli di declino delle catture a livello mondiale misurandone il peso pro-capite (kg a persona), a partire dal progressivo impoverimento degli stock che si è manifestato nell'ultima decade del XX secolo.


L'ecologia ci insegna che i sistemi biologici non sono affatto lineari e ciò comporta che la risposta di un ecosistema ad un cambiamento causato da un fattore esterno, può non essere semplice da prevedere. I tempi e le modalità di risposta sono infatti variabili e proprio per questo possono manifestarsi cambiamenti improvvisi e drammatici che riguardano singoli processi o singole specie (per questo motivo definite specie chiave) che hanno riflessi sull'intero sistema.

In “2052” (8), lo studioso norvegese Dag O. Hessen, in un suo articolo sugli scenari che potranno interessare il mare del Nord nei prossimi anni, evidenzia in modo esemplare come una piccola e apparentemente insignificante specie di crostaceo imparentato con granchi e aragoste ma dalle dimensioni di pochi millimetri, giochi un ruolo determinante all'interno di quell'ecosistema.

Il Calanus planctonico è infatti una specie chiave perché a dispetto delle sue dimensioni è presente in grandi quantità e influenza in modo determinante le catene trofiche di quell'area.

Poiché la temperatura del mare del Nord si sta velocemente riscaldando a causa del mutamento climatico in corso, con effetti che si estenderanno fino all'oceano artico, la popolazione di Calanus ne verrà fortemente condizionata.

Le temperature più alte, specialmente nelle acque di superficie (fino a 2 gradi in più a metà di questo secolo), limiteranno il rimescolamento di queste ultime con quelle di profondità più fredde e ricche del fitoplancton di cui questa specie si nutre, tanto da determinarne un suo calo numerico. Sfortunatamente la scarsità di Calanus significherà scarsità di cibo per molte specie di pesci, una insufficienza che a sua volta si rifletterà sugli uccelli marini, sulle foche, e sugli orsi polari, causando il famoso effetto a cascata che verosimilmente comprometterà questa notevole rete alimentare.

Come è evidente, la centralità di una specie chiave all'interno di un ecosistema ne indica la vulnerabilità.

Riferendo i contenuti della relazione biennale dell'I.P.S.O. (International Programm on the State of the Ocean), Alex Rogers, professore di biologia all'Università di Oxford, ha chiarito che l'acidificazione in corso nei mari è senza precedenti nella storia conosciuta della Terra e che la salute del mare si sta degradando vertiginosamente e con effetti imminenti rispetto a quanto previsto precedentemente .

Gli attuali tassi di rilascio di carbonio negli oceani sono infatti 10 volte più rapidi di quelli che hanno preceduto l'ultima grande estinzione di specie, che è stata quella del Paleocene-Olocene, avvenuta circa 55 milioni di anni fa.

Dai rilievi dell' I.P.S.O. emerge quindi come l'attuale processo di acidificazione sia il più importante negli ultimi 300 milioni di anni, secondo le registrazioni geologiche.

Ma quanti conoscono il ruolo fondamentale che il mare gioca nell'equilibrio della vita sul pianeta ?

Considerato che il fitoplancton marino produce quasi la metà dell'ossigeno presente in atmosfera e che il 90% di tutte le forme viventi si trova negli oceani, è facile intuire cosa può accadere alterando i processi biochimici del più grande insieme di ecosistemi del pianeta.

I rilievi, stanno evidenziando come gli organismi marini siano sottoposti ad uno stress difficilmente tollerabile.

Gli animali marini usano segnali chimici per percepire il proprio ambiente e per localizzare prede e predatori e ci sono evidenze che il processo di acidificazione stia interferendo con questa capacità fino a comprometterla: quante di queste specie saranno effettivamente in grado di adattarsi alle nuove condizioni ?

Pur nella consapevolezza che grandi porzioni oceaniche restano da verificare e che, come abbiamo visto, i "feedback" che arrivano dagli oceani sono spesso lenti e apparentemente non chiari, Rogers ha sottolineato il fatto che ci troviamo in presenza di un cambiamento molto rapido e su larga scala che dovrebbe rappresentare una preoccupazione estremamente seria, considerati i limiti del mare nel sostenere la vita sul pianeta. E’ per questo motivo che la comunità scientifica chiede di mettere in campo un’iniziativa che permetta di sviluppare le conoscenze sull’acidificazione degli oceani, ed è per questo che l'UNESCO chiede la realizzazione di un meccanismo internazionale in grado di trattare specificamente questo problema affinché la questione non resti ai margini dei negoziati sui cambiamenti climatici.

Assorbendo enormi quantità di carbonio e calore dall'atmosfera, gli oceani del mondo hanno finora contribuito a proteggere gli ecosistemi terrestri e gli esseri umani dagli effetti peggiori del riscaldamento globale, ma ciò sta comportando mutamenti profondi sulla vita marina. Del resto, come abbiamo visto, la capacità del mare di assorbire CO2 è comunque limitata e il suo riscaldamento compartecipa allo scioglimento dei ghiacci polari in una catena di eventi che hanno effetti globali.

Considerato che c'è un ritardo temporale di diversi decenni fra il rilascio del carbonio in atmosfera e gli effetti sui mari, ciò significa che una ulteriore acidificazione ed un ulteriore riscaldamento degli oceani sono al momento inevitabili, anche se la nostra specie riuscisse a ridurre drasticamente e molto rapidamente le emissioni di gas climalteranti.

A conferma di quanto documentato, durante l'ultima giornata mondiale della Biodiversità, i biologi e i naturalisti che lavorano al programma ambientale dell'O.N.U., hanno potuto affermare che l'essere umano, attualmente, rappresenta per la quasi totalità delle specie animali e vegetali una autentica minaccia di estinzione di massa.

La sesta, in ordine di tempo, tra quelle conosciute dalla comparsa della vita pluricellulare.

Calcoli prudenziali, effettuati alcuni anni fa dal biologo Edward Owen Wilson, docente ad Harvard, stimano infatti che ogni anno, per cause connesse alle attività antropiche, si estinguono circa trentamila specie.

Una cifra che ora viene rivista al rialzo, in considerazione delle condizioni sempre peggiori in cui versano gli ecosistemi.

In conclusione, se non cambiamo in fretta il nostro atteggiamento e le nostre abitudini (e il riferimento non è certo alle comunità umane che vivono in modo tradizionale e a basso impatto ambientale), è bene sapere, come scrisse Bateson, che non solo porteremo a compimento la più grande strage della storia del pianeta ma noi stessi faremo la fine di una palla di neve all'inferno.

Insomma, gli alieni siamo noi.



* Max Strata è consulente ambientale.










mercoledì 8 giugno 2016

L'Università di Firenze alla ricerca della sostenibilità



7 Giugno 2016: Il rettore dell'Università di Firenze, Prof. Luigi Dei, inaugura la manifestazione "ScienzEstate" a Firenze. Quest'anno, il tema principale è la sostenibilità. (vedi anche la pagina di Unifi dedicata alla sostenibilità su Facebook)


L'ateneo di Firenze sta facendo un grosso sforzo per posizionarsi come ateneo sostenibile e come leader sull'argomento "sostenibilità". E' un'iniziativa spinta con decisione dal nuovo rettore, il prof. Luigi Dei, come un modo intelligente per reagire alle grosse difficoltà che ci troviamo di fronte in questo momento; soprattutto in tema climatico: Gli obbiettivi stabiliti a Parigi con la COP21 non saranno raggiungibili senza un cambiamento di rotta fondamentale di tutta la società. Per questo scopo, le nostre università possono fornire competenza, formazione, informazione e molto di più per aiutare la "società civile" a muoversi nella giusta direzione.

Quindi, il primo passo è ora quello di coordinare le varie attività, molte di altissimo livello internazionale, che un grande ateneo come quello di Firenze ha al suo interno. E non solo attività di ricerca, ma anche tutto quello che possiamo fare come ateneo per dare l'esempio di comportamenti virtuosi in campo ambientale, come nella gestione dei rifiuti e in quella dell'efficienza energetica degli edifici e dei trasporti. Anche qui, si fanno molte cose eccellenti nell'Università di Firenze, ma spesso slegate fra di loro ed episodiche. Bisogna coordinarle per cercare di fare "massa critica" e migliorare.

L'impegno di cercare di far partire questa coordinazione è un lavoro che il modesto sottoscritto (Ugo Bardi) si è preso all'anima di fare come delegato su questo argomento. A breve, dovremmo avere un sito Web di Ateneo dedicato alla sostenibilità. Ma, già ora, è nata la pagina di Ateneo su Facebook dedicata alla sostenibiltà. La trovate a questo link:

https://www.facebook.com/UnifiSostenibile/ (Oppure, cercate "Unifi: Ateneo Sostenibile" sulla barra di ricerca di Facebook).

Se l'argomento vi interessa, andate a vedere questa pagina. Facebook permette una comunicazione rapida e informale; spesso molto efficace. Quindi, se avete idee, commenti, proposte, fantasie, proteste, lamentele, mugugni, poesie ermetiche, o altre cose che pensate siano correlate alla sostenibilità, fateci sapere!

Ovviamente, questi sono soltanto primi passi. La comunicazione serve a favorire le attività ma, di per se, non le crea. Quindi, da qui in poi cercheremo di andare avanti e di costruire qualcosa di utile.






martedì 7 giugno 2016

Bye bye BRICS?

Post già apparso sul blog "Crisis, What Crisis?  il 23/05/2016.


BRICS
“ BRICS ” : parola magica capace di far sognare ad un tempo sia i più fanatici sostenitori del turbo-capitalismo, sia molti che lo odiano.   Mistero dell’opinione pubblica.

 

di Jacopo Simonetta

Nascita dei BRICS


L’acronimo è nato nel 2001 nel cuore del capitalismo d’alto bordo:  nientedimeno che in casa Goldman Sachs, ad opera di Jim O'Neill, uno dei suoi uomini più brillanti.   In effetti, in origine era solo BRIC, cioè Brasile, Russia, India e Cina che, garantiva mr. O’Neill, erano i “mattoni” su cui sarebbe stata fondata l’incredibile prosperità economica del XXI secolo.   In seguito fu aggiunto il Sudafrica.  Tutti avevano gli ingredienti per vincere: grandi territori Ed una rapida crescita del PIL, oltre che della popolazione (Russia esclusa).
Ancora nel 2014 i “magnifici 5 BRICS ” avevano fatto frullare le prime pagine dei giornali economici annunciando che erano stufi dell’obsoleto e razzista Fondo Monetario Internazionale (all’interno del quale sono comunque ben  presenti).   Avrebbero quindi fondato una banca mondiale alternativa che avrebbe davvero finanziato la crescita dei paesi emergenti: la New Development Bank.   Nuova ondata di entusiasmo bi-partisan sia dei fautori che dei detrattori del BAU (Business As Usual = globalizzazione), sia pure per motivi opposti.
Qualche scettico cronico, tipo il sottoscritto, sostenne che dietro lo smalto si vedevano già delle belle crepe in tutti e cinque i BRICS, ma nessun commentatore di rilievo, che io sappia, fece osservazioni analoghe.   In fondo siamo comunque umani e ci piace sognare.

I BRICS oggi.

A solo 15 anni dal loro battesimo in casa (o chiesa?) Goldman Sachs, che ne è dei cinque “enfant prodige” della crescita economica?   Diamogli un’occhiata.

Brasile.


crisi BRICS
Il PIL del Brasile
Nel medesimo fatidico 2014 in cui i BRICS annunciavano la loro nuova super-banca, si giocavano i mondiali di calcio in Brasile.    Mondiali destinati a passare alla storia per le spese iperboliche mai recuperate, la realizzazione di mega-stadi, alcuni dei quali subito abbandonati, e per le sommosse popolari contro tutto questo.    N.B.:  Sommosse contro il campionato di pallone in Brasile!

E per colmo di sventura, vinse la Germania.
Di per sé tutto ciò sarebbe trascurabile, ma qui ci interessa perché era un sintomo evidente di quello che stava per accadere: la peggiore recessione della storia brasiliana, il caos politico con il Presidente sotto processo, le alte sfere travolte dagli scandali ed in arrivo le olimpiadi più disastrate e disastrose della storia.   Per non farsi mancare nulla, siccità ed incendi stanno mettendo in ginocchio la rete elettrica nazionale e, di conseguenza, buona parte dell’industria.   Mentre San Paolo (la città più grande del l’emisfero australe) sta restando a corto di acqua.  Davvero Zika è l’ultimo dei loro problemi.

Russia

Crisi BRICS - svalutazione rublo
Svalutazione del Rublo
Già di partenza era una presenza anomala.   Gli altri erano infatti “Paesi emergenti” e ruggenti (nel 2001), mentre la Russia era una super potenza sconfitta che aveva faticosamente recuperato un equilibrio e rimesso in piedi un’economia.   Soprattutto basandosi sull’esportazione di energia: petrolio sul mercato globale e gas su quello europeo.   In pratica quindi, un fornitore di materia prima per l’eventuale sviluppo altrui.    Non era un gran che, ma era il meglio che si  potesse fare e Putin lo aveva fatto, fermando il completo collasso del paese scatenato dalla sconfitta, ma soprattutto dalla disastrosa gestione del governo Eltsin.

Il problema è che non appena sono entrate in crisi le economie clienti, la Russia si è trovata di colpo con le spalle al muro.   Né la prospettiva di uno sviluppo delle forniture verso la Cina pare avere molte prospettive, sia per i tempi e gli investimenti necessari, sia per la crisi che nel frattempo ha raggiunto la Cina.   Anche in questo caso, il disastro ambientale contribuisce.  Molti tratti dei previsti metanodotti e delle strade di servizio dovrebbero infatti appoggiare sul permafrost che si sta sciogliendo. Certo la Russia rimane la seconda forza armata a livello planetario e, di conseguenza, un attore politico di primo piano.   Ma le prospettive economiche rimangono quanto mai fosche.

India

siccità in india
Siccità in India
Per l’India, i dati ufficiali parlano di una crescita economica intorno al 7% ma intanto calore estremo e siccità stanno letteralmente distruggendo buona parte del paese.   La gente fugge in città per sopravvivere e per rifornire d'acqua le città si finiscono di prosciugare le campagne, i fiumi e le falde freatiche.  I tassi di inquinamento sono fra i più alti del mondo, con i conseguenti costi sanitari e sociali.

Più di tutto, l’India ha una popolazione di quasi 1,3 miliardi in rapida crescita (1,38%) ed un terzo della popolazione ha meno di 30 anni.   Sono impressionanti i livelli di violenza di tutti i tipi: da quella domestica e sulle donne a quella religiosa, passando per quella politica e dalla criminalità comune.   L’affermarsi di partiti nazionalisti e oltranzisti non è che un ulteriore indice di crisi strutturale e non potrà che aggravare la situazione.

Cina

Importazioni cinesi
Importazioni cinesi
E’ il pezzo forte della collezione.   Il paese più popoloso e più inquinante del mondo è adesso anche la seconda economia e la terza forza armata a livello mondiale.    Sul piano economico, i dati ufficiali proclamano una crescita fra il 6 ed il 7% negli anni peggiori, ma analizzando l’import/export (verificabile dai dati di tutti gli altri paesi) risulta evidente che non è vero.   La Cina è in recessione o, perlomeno, in stagnazione.  E si sta tirando dietro tutte le economie dell'est asiatico: dalla Corea del sud a Singapore.   Del resto, la crescente aggressività internazionale, ad esempio con le ricorrenti crisi militar-diplomatiche per il possesso di scogli inabitabili sparsi in giro, sono un indizio pesante di crisi grave.
Esportazioni cinesi
Esportazioni cinesi
Sul piano politico, il Partito Comunista continua ad avere un saldo controllo e l’opposizione pare limitata a pochi intellettuali, ambientalisti e minoranze etniche marginalizzate.  Ma i licenziamenti di massa in programma e la fine (o perlomeno il drastico rallentamento) della crescita economica potrebbero cambiare il quadro.   Così come il debito, esploso al 300% del PIL in pochi anni.    Anche i folli livelli di inquinamento, la desertificazione di vasti territori e la cronica mancanza d’acqua non mancheranno di avere effetti sul futuro del paese.

Sudafrica.

Andamento della crescita del PIL e della disoccupazione.
Andamento della crescita del PIL e della disoccupazione.
Passata la sbornia del dopo-apartheid, si cominciano a fare i conti con l’oste.   Al di la dei tecnicismi e dei trucchi contabili, la crisi cinese ha trascinato anche il Sudafrica in una crisi economica senza precedenti, assieme a tutti gli altri paesi esportatori di materie prime.  I titoli governativi e di molte imprese sono classificati “Junk” o quasi, l’inflazione galoppa ed il debito esplode.

La delinquenza aumenta, in particolare il bracconaggio che sta spazzando via buona parte della mega-fauna in questo, come in tutti gli altri paesi africani.    Ed intanto il presidente Zuma (quello dello storico accodo del 2014) è coinvolto in una serie di scandali per corruzione e simili.
A far le spese di tutto ciò, innanzitutto gli immigrati dai paesi circostanti che sono fuggiti in massa dopo una serie di attacchi xenofobi che hanno fatto diversi morti e molti feriti.

E’ la fine dei BRICS ?

Prima di sparare pronostici, è sempre bene dare un’occhiata al contesto.   E il contesto è di impatto globale contro i limiti dello sviluppo.    Una cosa di cui si parla da 40 anni, ma cui ancora molti non vogliono credere.
Se davvero la crisi attuale non è un incidente, ma l’inizio della fine del BAU, è ben difficile che 5  paesi fra i “più BAU” del mondo possano uscire dal pantano in cui si sono cacciati.   Tuttavia non si può far d’ogni erba un fascio.  Se come blocco politico-economico i BRICS sono probabilmente finiti per sempre (ammesso che siano mai esistiti!), non è affatto detto che lo siano singolarmente.   Soprattutto non in un contesto in cui l’Europa sta facendo di tutto per suicidarsi e gli USA sembrano precipitare in una voragine di stupidità.
A mio  modesto avviso, quelli messi peggio sono il Sudafrica e l’India, sia per la pressione demografica che per la rapida evoluzione del clima.  Segue il Brasile che, pur avendo una popolazione relativamente modesta rispetto al territorio, ha fatto della sistematica distruzione di questo il suo settore trainante.   Inoltre, sia il Brasile che il Sudafrica sono, fondamentalmente, fornitori della Cina.   Se questa sprofonderà li trascinerà con sé, mentre se la Cina riprenderà fiato ricomincerà a comprare, ma ciò non farà che accelerare il tasso di distruzione delle risorse ed il degrado del territorio dei suoi fornitori.
La Russia è un caso a parte.   Se sul piano strettamente economico non può far molto altro che sperare che il prezzo dell’energia torni a salire, sul piano politico ha parecchie frecce al suo arco.  Finora ne ha scoccata qualcuna giusta e qualcuna sbagliata.   Se saprà giocare bene le sue carte, potrebbe cavarsela meno peggio di altri, anche grazie alla bassa densità di popolazione (tendente alla diminuzione) ed al vasto territorio.   Anche il fatto che la maggior parte dei russi siano abituati a cavarsela con poco potrebbe aiutare questo paese ad essere fra quelli che cadranno in cima e non in fondo al cumulo di macerie della civiltà industriale.   Se, invece, opterà per diventare una periferia cinese, farà la fine di tutte le periferie di tutti gli imperi in declino.
In ultimo l’Impero Cinese.     Direi che è sicuramente troppo presto per darlo per spacciato.   Anche se la tendenza globale è verso la fine dell’economia industriale, la Cina ha ancora molti margini di manovra sul piano politico e militare.  Ed ha una popolazione relativamente stabile, anche se malsana.    Il rischio che una potenza in crisi cerchi la scappatoia attraverso l’avventura militare è sempre presente.  Del resto USA e Russia stanno facendo esattamente questo.   Lo farà anche la Cina?   Non possiamo saperlo, ma diciamo che è abbastanza probabile.   Il contesto ed i mezzi sono però molto diversi e non è prevedibile come possa finire. In sintesi, credo che finché il sistema partito-esercito rimarrà saldo e coeso, la Cina potrà attraversare crisi terribili al suo interno e scatenarne di ancor peggiori fuori, ma non si disintegrerà.
Un’ultima osservazione.   Il destino di questi paesi è in gran parte nelle nostre mani.   Più stupidaggini faremo noi, più si apriranno spazi di manovra per loro.   Personalmente, credo che la strategia migliore sarebbe cercare (se possibile) un accordo strategico con la Russia per tenere sotto controllo la Cina.   Non che l’Europa abbia molto da fidarsi della Russia, né la Russia dell’Europa, ma credo che una sospettosa alleanza gioverebbe ad entrambi.   Noi abbiamo urgente bisogno di prendere pacificamente le distanze dagli USA e loro stanno rischiando di diventare una colonia cinese.

Forse, potremmo darci una mano l'un l'altro per farsi il meno male possibile rotolando giù per la parte discendente del "Picco di tutto".

domenica 5 giugno 2016

Un mondo 100% rinnovabile è possibile? Un sondaggio fra gli esperti

Da “Cassandra's Legacy”. Traduzione di MR



Riporto qui i risultati di una piccola indagine che ho portato a termine la scorsa settimana fra i membri di un forum di discussione, principalmente esperti di energia rinnovabile (*). Si è trattato di un sondaggio molto informale, non inteso per avere un valore statistico. Ma circa 70 persone hanno risposto fra un totale di 167 membri, quindi penso che questi risultati abbiano un certo valore nel dirci come si sentono gli esperti in questo campo. E sono stato sorpreso dal notevole ottimismo che è uscito fuori dal sondaggio. Ecco cosa ho chiesto ai membri della lista (nota: questo sondaggio ora è online su Doomstead Diner).

sabato 4 giugno 2016

Il fallimento dell’agricoltura innaturale



di Minelli Matteo
Un giorno ci siamo convinti di riuscire a produrre cibo meglio di come aveva sempre fatto la natura. Così nasce l’agricoltura, una storia che finirà male se non la cambiamo in fretta. 
C’è un filo, per nulla sottile, che lega indissolubilmente l’agricoltura delle origini, quella delle fatiche inaudite e degli strumenti inadeguati, all’agricoltura contemporanea, in cui mezzi pesanti e fitofarmaci la fanno da padrone. Ovviamente non si può e non si deve mettere sullo stesso piano l’agricoltura contadina dei nostri bisnonni, caratterizzata da una profonda conoscenza dell’ambiente e da un rapporto simbiotico con la terra, e l’agricoltura della rivoluzione verde, in cui chimica e meccanica hanno reso totalmente asettico il matrimonio tra l’uomo e la terra. D’altro canto sarebbe un atto di cecità non comprendere che anche tra due modi così distanti di vivere una storia millenaria non vi sia un legame molto profondo e tristemente duro da spezzare. Circa diecimila anni prima di Cristo, giorno più giorno meno, ci siamo convinti che avremmo potuto far nascere, crescere e morire numerosi tipi di vegetali meglio di come la natura aveva fatto per centinaia di milioni di anni. E da allora, vuoi per ignoranza, vuoi per necessità, vuoi per interesse non abbiamo mai smesso di pensarla in questo modo.
Per circa duecentomila anni gli uomini sono vissuti raccogliendo i frutti che l’ambiente autonomamente decideva di offrirgli. Uno stile di vita che studi antropologici, archeologici e paleontologici hanno dimostrato essere assai più soddisfacente, da molti punti di vista, di quello che i contadini hanno potuto vantare per molti millenni in vaste parti del globo. Qualcuno ha perfino voluto vedere nel racconto biblico della cacciata dell’uomo dall’Eden una chiara allusione del passaggio dell’umanità da una felice condizione di raccoglitori ad una sventurata di agricoltori. Quel “tu, uomo lavorerai con dolore” pronunciato da un Dio iracondo, sicuramente lascia intendere che il futuro di Adamo non sarebbe stato roseo come il periodo passato nel Paradiso Terrestre, in cui la sua unica fatica era quella di cogliere qua e là i frutti delle piante che l’Onnipotente gli aveva gentilmente concesso. E in fondo se deve esserci stato un peccato originale è proprio quello dell’essersi voluti sostituire a Dio nella grande opera di pianificazione del mondo vegetale.
È un uomo nuovo quello che brandisce la zappa. Un uomo che non vuole più spostarsi, un uomo che pensa di poter far crescere in maniera indefinita la sua discendenza, un uomo che crede di poter modificare i paesaggi e decretare quali piante siano utili o dannose, accettabili o insopportabili, da conservare o da distruggere. Un uomo che si è convinto di poter produrre in un determinato appezzamento più cibo di quello che effettivamente può offrire.
Da allora fino ai giorni nostri l’uomo, in nome dell’agricoltura, ha decretato inesorabilmente quali fossero le piante dannose e quelle utili, le piante da salvare e quelle da sacrificare. Ha disboscato le foreste perché gli serviva più spazio per le culture commestibili. Ha ucciso gli uccelli perché mangiavano i suoi semi. Ha sterminato gli insetti perché attaccavano le sue coltivazioni. Ha selezionato le piante di cui si nutriva perché non le considerava abbastanza produttive. Ha arato, ha sarchiato e ha zappato convinto di creare un ambiente adatto alle sue coltivazioni, mentre cercava di impedire le che altre specie vegetali vi attecchissero. Ha lasciato il suolo senza vita, come solo nelle aree desertiche accade, credendo di poter arginare il ritorno della natura negli spazi che gli aveva sottratto.
Ha fatto tutto questo fin dagli esordi della rivoluzione agricola, riscontrando impoverimento dei terreni, andamento decrescente delle rese agricole, indebolimento delle piante coltivate, erosione dei suoli. Per cercare di sopperire a questo disastro ha introdotto nel corso tempo l’agricoltura taglia e brucia, quella itinerante, l’avvicendamento e la rotazione delle culture, la fertilizzazione animale, il maggese. Fino ad arrivare alla metà del secolo scorso quando attraverso la chimica e la meccanica l’uomo ha riaffermato, nella maniera più drammatica possibile, il suo ruolo di pianificatore del mondo vegetale. I nuovi mostri legati all’agricoltura dei giorni nostri si chiamano inquinamento delle falde acquifere, dei fiumi e dei laghi, scomparsa della biodiversità, desertificazione, drastica riduzione delle risorse idriche, contaminazione dei cibi, malattie professionali per gli addetti al settore e purtroppo molto altro.
La verità è che questa agricoltura invece di nutrire l’umanità ha da sempre contribuito ad affamarla. Oggi siamo quasi sette miliardi e mezzo su questa terra e purtroppo continueremo ad aumentare. Mentre la popolazione aumenta cresce la pressione sugli agricoltori affinché con sempre meno superficie e addetti facciano impennare ancora le produzioni. La combinazioni di questi due fattori finirà per acuire ancora di più tutte le conseguenze nefaste che questo modello agricolo si porta appresso.
Qual’è allora l’alternativa praticabile a questo sistema? Ovviamente, anche se lo volessimo, siamo in troppi per tornare a raccogliere il cibo che la natura ci offre liberamente. Tuttavia possiamo iniziare a praticare un nuovo tipo di agricoltura in cui invece di essere protagonisti siamo spettatori, invece di fare impariamo a guardare, invece di togliere cominciamo a mettere. Un’agricoltura che si porta appresso i semi di un cambiamento più grande di lei. Perché se è vero che ogni sistema economico e politico ha alla base un certo modello agricolo, allora un’agricoltura naturale sarà il fondamento di un’altra società.

giovedì 2 giugno 2016

E tanti saluti anche al turismo internazionale!

Da “tourism master”. Traduzione di MR (via Cristiano Bottone)


Come parte del programma di studio del loro master in Gestione della Destinazione del Turismo, gli studenti hanno scritto rassegne di letteratura nell'ambito del “Contesto del turismo internazionale”. In questo secondo di sei rassegne di letteratura, Maria Klampfl discute le conseguenze del picco del petrolio sulla domanda globale di turismo.

Introduzione

Il petrolio è una risorsa finita. Quindi le tendenze globali dell'offerta di energia e del suo consumo sono ambientalmente, economicamente e socialmente insostenibili (Matutinovic, 2011, p.1131; 1129). Gli esperti stanno avvertendo sempre di più sull'emergente sfida energetica che la civiltà occidentale e il mondo nel suo complesso dovranno affrontare durante il prossimo decennio (Matutinovic, 2011, p.1131; 1129; Nell & Cooper, 2008, p.1096). Le conseguenze di un petrolio meno accessibile sulla società sono intrinsecamente complesse (Becken, 2010, p.373). Infatti, le riserve petrolifere in diminuzione porranno un “vincolo definitivo sulla crescita economica, sulla distribuzione globale di stili di vita e sul livello di integrazione dell'economia globale”  (Matutinovic, 2011, p.1131). Inoltre, colpirà il turismo e il modo in cui sta operando oggi.