mercoledì 28 ottobre 2015

“Il picco del petrolio ci salverà dal cambiamento climatico”: un meme che non è mai diventato virale

Da “Resource Crisis”. Traduzione di MR

Di Ugo Bardi




Immagine da “Peaksurfer” 


L'idea che il picco del petrolio ci salverà dal cambiamento climatico è saltata fuori di tanto in tanto nel dibattito, ma non ha mai preso realmente piede per una serie di buoni motivi. Uno è che, in molti casi, le persone che la proponevano erano negazionisti climatici e questo li ha resi scarsamente credibili. Infatti, se il cambiamento climatico non esiste (o se non è causato dalle attività umane), come è che ci racconti che il picco del petrolio ci salverà? Aggiungete a questo il fatto che molti negazionisti climatici dalla linea dura sono anche negazionisti del picco del petrolio (visto che, come si sa bene, i due concetti sono parte di una grande cospirazione), quindi non sorprende che il meme “il picco del petrolio ci salverà” non è mai diventato virale.

lunedì 26 ottobre 2015

Pan è morto, Dio pure e l’Uomo sta molto male. E adesso?

di Jacopo Simonetta

Durante il regno di Tiberio un certo Thamus udì una voce che annunciava “Il grande Pan è morto”.

La faccenda fu presa tanto sul serio che l’Imperatore convocò Thamus per farsi raccontare di persona come fosse andata e della faccenda discussero molto seriamente i saggi ed i più alti sacerdoti.   All’epoca nessuno a Roma aveva fatto caso che la fede nella sacralità della Città eterna e nelle divinità tradizionali cominciava ad affievolirsi, mentre in Palestina era comparsa una nuova setta ebraica, molto attiva e capace di fare proselitismo presso qualunque popolo della Terra.   Una volta divenuta maggioranza, la piccola setta di un tempo avrebbe spazzato via la mistica e la mitologia antiche per sostituirle con altre che divennero il fondamento della successiva civiltà europea.

Un paio di millenni più tardi, fu invece un certo Friedrich Nietzsche ad annunciare urbi et obi che Dio era morto e che ovunque si avvertiva il fetore della sua decomposizione.   Un modo un po’ brutale di dire che, ancora una volta, la tradizionale fede degli avi si era ridotta ad una mera abitudine, vuota di significato.   Ma anche in questo caso una nuova divinità stava già prendendo, anzi aveva già preso, il posto di quella “defunta”.
Già da oltre un secolo, infatti, l’Illuminismo aveva propagandato con successo il culto della ragione umana e, giusto una generazione prima di Nietzsche, Auguste Comte aveva proposto un esplicito culto dell’Umanità o, come usa dire oggi, dell’Uomo.   Nei dettagli, nessuna delle due proposte aveva avuto successo.   In compenso il sentimento, ancor più che l’idea, che l’intelligenza umana fosse potenzialmente onnipotente si era profondamente radicato in quasi tutti gli ambienti, comprese le chiese tradizionali.

Certo, c’erano delle differenze importanti.   Nessuno accende candele o sgozza agnelli in onore dell’Uomo, ma in compenso si cambia la geografia del Pianeta e si cancellano con disinvoltura interi biomi e culture semplicemente perché ciò è utile allo sviluppo dell’Uomo.    Anzi, il livello di antropizzazione del paesaggio e di industrializzazione dell'economia sono diventate delle misure dello sviluppo di un paese.

Del resto, non minori erano state le differenze fra le Divinità classiche ed il Dio cristiano o mussulmano.   In ultima analisi, si tratta comunque di archetipi.   Cioè di astrazioni profondamente radicate nell'inconscio collettivo intorno alle quali si struttura un intero modo di pensare, di osservare, capire ed agire.   Sono insomma gli archetipi che danno un significato, un’identità ed uno scopo alla nostra vita.   Insomma che ci mettono in condizione di vivere, per citare un certo Einstein che non era certo un baciapile..   Non a caso la metafisica è puntualmente rientrata dalla finestra, ogni volta che qualche filosofo ha tentato di buttarla fuori dalla porta.

Se lo scopo della religione Romana era stato principalmente quello di perpetuare in eterno l’Urbe e quello del Cristianesimo salvare la propria anima dalla dannazione eterna, la fede nell’Uomo ebbe un fine più immediato: migliorare indefinitamente la nostra presente vita.   Questo ipotetico processo di indefinito ed irreversibile miglioramento prese il nome di “Progresso” e divenne il mito fondante della civiltà industriale.

Già la fede in Roma era stata esportata sulle punte dei pila prima di diventare la narrativa comune dei popoli dell’Impero.   Più tardi, anche la fede in Cristo ed in Allah furono diffuse con gran ricorso alle armi ed alle persecuzioni, prima di diventare la matrice identitaria dei popoli convertiti.   Così, in tempi assai più recenti, il culto dell’Uomo e la mistica del Progresso si diffusero principalmente grazie ai moschetti ed alle navi, ma finirono col conquistare i cuori e le menti dei popoli sopravvissuti alla colonizzazione.

Del resto, come resistere?   Il Progresso assicurava che il paese di Bengodi non fosse una fantasia medioevale, bensì il destino ultimo dell’umanità.   Il paradiso che altri promettevano in cielo poteva essere qui in terra.   Anzi, sicuramente così sarebbe stato, prima o poi, grazie alle infinite risorse dell’Ingegno Umano.

Chi più, chi meno, quasi tutti ci hanno creduto e la grande maggioranza delle persone ancora ci credono.   Ognuno ha la sua variante specializzata.   Per alcuni il futuro è popolato di robot e vi si fanno viaggi intergalattici.   Per altri è un regno di pace e prosperità per tutti.   Per altri ancora un’epoca di profonda consapevolezza, oppure un mosaico di pacifici villaggi contadini e via di seguito.   Ma quale che sia la variante che ci è cara, abbiamo tutti fiducia che il futuro sia migliore del presente e del passato.   Lo consideriamo una specie di diritto inalienabile.

Ma forse sarebbe meglio dire che abbiamo avuto fiducia.   Si, perché circa un anno fa un altro tizio, tal Michael Greer per la precisione, ha annunciato che anche l’Uomo era morto .

A dire il vero, l’annuncio non ha sollevato lo scalpore dei due precedenti, forse perché leggermente prematuro.   In effetti, la fede nell'Uomo sembra ancora viva, anche se sta perdendo pezzi rapidamente.

Si può capire.   La vita della maggior parte degli uomini del mondo, ed in particolare degli occidentali che hanno concepito il mito, non sta migliorando affatto; piuttosto il contrario.   Ancor più rapidamente peggiora la vita di molti fra i popoli che hanno creduto di poter usufruire del nostro stesso opulento stile di vita solo adeguando la propria fede ed imitando i nostri costumi.

Ormai ogni giorno che passa più gente si rende conto che la promessa del paradiso in terra non sarà mantenuta, né dalle sette liberiste, né da quelle socialiste.   Ma quando perdiamo fiducia nel modello mentale che utilizziamo per leggere il mondo ci troviamo smarriti, confusi, spaventati.   Spesso anche bramosi di vendetta.   Si, perché non siamo mai stati noi ad essere ingenui, bensì gli altri ad averci ingannati.

Ma mentre quando morì Pan Cristo era già risorto e quando morì Dio l’Uomo era nel pieno delle sue forze, adesso che quest’ultimo rantola in un reparto di terapia intensiva, non si vedono possibili sostituti all'orizzonte.   O forse, al contrario, ce ne sono troppi.

Possiamo vivere tranquillamente senza officiare a divinità alcuna, ma senza un modello mentale su cui fare affidamento non siamo capaci di vivere a lungo.   A suo tempo, Nietzsche aveva pensato che i suoi tempi fossero maturi per l’apparizione del super-uomo (o oltre-uomo, a seconda delle traduzioni): cioè gente capace di vivere senza fede alcuna, assumendosi la piena responsabilità di ogni cosa gli accadesse.   Ma non fu così.

Allora come oggi, chi perde una fede ne cerca un’altra.   Non c’è infatti niente di arcaico nel diffondersi prepotente di gruppi integralisti in seno a tutte le religioni tradizionali.   Anzi, direi che sia un fenomeno tipicamente post-moderno che caratterizza specialmente i figli ed i nipoti di coloro che avevano creduto nell'Uomo e nel Progresso.   Ed il livello di brutalità praticata è probabilmente proporzionale all'ampiezza del vuoto interiore lasciato dalla delusione.

Altri cercano la strada anche più lontano, ad esempio reinventandosi culti pagani, vagamente ispirati al poco che si sa di quelli antichi.   Oppure rimodellando ancora una volta il modo di vivere ed intendere le religioni tradizionali che hanno già attraversato più di una simile fase di modernizzazione.   Oppure ripensando in chiave ecologica la fiducia nelle capacità della mente umana che, si continua a sperare, sarà comunque capace di rimediare a tutti i malanni che ha prodotto.

Comunque, i più numerosi sono ancora coloro che continuano ad identificarsi con la tradizionale concezione di Progresso e con la capacità umana di dominare gli elementi.   Gli esempi possibili sono innumerevoli, ma vorrei citarne due di natura molto diversa, ma parimenti indicativi:

A Foligno fra il 9  ed il 12 Aprile 2015 si è tenuta la “Festa della Scienza e della Filosofia”; tema: “La scienza ed il futuro”.   Niente di meno!   Due giorni di discussioni e relazioni su argomenti svariatissimi ed interessanti: dalle ricerche sui neutrini all'origine di Homo sapiens; dai rapporti fra Scienza ed umanesimo fino al pacifismo di Einstein.   Ma neanche una parola sull'impatto globale contro i limiti dello sviluppo, la trappola tecnologica, la sovrappopolazione, lo sgretolarsi della nostra civiltà, la morte della Biosfera od un qualsiasi altro argomento che avesse a che fare con la fine del Progresso.

Il secondo esempio è anche più impressionante.   Nella lettera enciclica “Laudato si” (riassunto ufficiale del testo integrale)  che tanto rumore e tanto entusiasmo a sollevato, la parola “Progresso” compare 24 volte.    Per criticarne le deviazioni, certamente, ma non per criticare la fede in un futuro necessariamente migliore del presente.   La parola “Scienza” compare 7 volte, mentre “Tecnologia” compare ben 21 volte;  “Benessere” 5 e “sviluppo” solo 2 volte.    In compenso la parola “Provvidenza” compare 0 volte, come quelle “Penitenza” e “Castigo”.   "Peccato" compare 6 , ma “Redenzione” solo una, neanche nelle conclusioni.   Eppure, mi pare che si tratti di concetti propri della mistica cristiana che si applicherebbero particolarmente bene a quello che sta accadendo al nostro mondo ed alle nostre vite.

Carl Sagan disse che viviamo in una società totalmente dipendente dalla scienza e dalla tecnologia, in cui quasi nessuno sa qualcosa a proposito di scienza e tecnologia.   Direi che è vero, ma non si possono certo sospettare gli organizzatori del convegno di Foligno, né gli estensori dell’enciclica papale di ignoranza!   La spiegazione deve quindi essere un’altra e temo che sia assai più fosca.

Per citare Frank Lloyd Wright: “Un Mito è un arrangiamento del passato, reale od immaginario che sia, in una forma che rinforza i valori più profondi e le aspirazioni di una cultura...  I Miti sono quindi gravidi dei significati coi quali si vive e si muore.   Sono le mappe con cui le culture navigano attraverso il tempo.”

Questo significa che una cultura non può cambiare i propri miti fondanti altro che diventando una cultura diversa ed apparentemente la Scienza non è in grado di modificare i miti che tanto ha contribuito a forgiare.
Già una cinquantina di anni fa divenne infatti scientificamente innegabile che le idee di crescita e di progresso erano delle pericolose utopie.   Anzi, una garanzia di disastro.   Ma dopo un primo vacillare, la reazione fu schiacciante.   Come sempre, i fedeli di una religione in difficoltà reagiscono con energia direttamente proporzionale al grado di minaccia.   Nella fattispecie, il controllo dei media ha consentito ai “progressisti” di impadronirsi del gergo e dei concetti nati per combattere la loro ideologia usandoli a sostegno della medesima.   Così, ad esempio, da elemento principale di rischio la tecnologia è diventata strumento di salvezza e la “crescita zero” è diventata “sviluppo sostenibile”: un’etichetta con cui oramai si coprono le pudenda di qualunque infamia ambientale.   La decrescita, per essere divulgabile, ha dovuto essere addolcita con il paradossale aggettivo “felice”.

I concetti più refrattari a questo tipo di perversione furono invece del tutto obliterati.   Così, ad esempio, mentre la popolazione umana raddoppiava, la parola “sovrappopolazione” svaniva, sostituita da quella paradossale “denatalità”.   Un po’ come se sulla Costa Concordia che cominciava a ingavonare fosse stata censurata la parola “affondiamo” per parlare piuttosto della sagra del granchio sottolio.

Per tornare alla massa montante della gente delusa e smarrita, oggi si fa molto caso ai crimini operati dalle bande di integralisti islamici, indù e quant'altro che, innegabilmente, sono particolarmente odiosi.   Ma si tace sul fatto che l’aver voluto perpetuare il culto dell’Uomo e del progresso, nel giro dei prossimi 50 anni,  costerà la vita ad alcuni miliardi di persone che non avrebbero dovuto mai nascere.

Un apparente paradosso che, invece, è molto coerente:  Nel nome della civiltà e del progresso dell’Uomo si sta preparando il più grande sacrificio umano mai concepito.


sabato 24 ottobre 2015

La vera causa dell'esodo di massa: il picco del petrolio

Da “crudeoilpeak.info”. Traduzione di MR

Di Matt Mushailik

Mentre l'attenzione del mondo si volge alla crisi dei rifugiati, dobbiamo guardare alle cause di questo esodo di massa. 




Fig 1: Rifugiati che camminano lungo l'autostrada ungherese verso l'Austria nel settembre 2015

Nel maggio del 2013, il Guardian aveva un articolo dal titolo “Picco del petrolio, cambiamento climatico e geopolitica degli oleodotti alimentano il conflitto siriano”. Nel marzo del 2015, un gruppo di ricercatori guidato dal climatologo Colin Kelley (Università della California) ha pubblicato uno studio sugli Atti dell'Accademia Nazionale delle Scienze dal titolo “Cambiamento climatico nella Mezza Luna Fertile ed implicazioni della recente siccità in Siria”. Fra il 2006 ed il 2009, il popolo siriano ha sofferto la più grave siccità che il paese abbia mai vissuto dall'inizio delle registrazioni strumentali. "Man mano che l'acqua diveniva scarsa, i raccolti sono andati perduti e il bestiame è morto su una scala enorme. 1,5 milioni di siriani, in una popolazione di poco più di 20 milioni, si sono trasferiti dalle campagne ai sobborghi delle città già traboccanti.”

mercoledì 21 ottobre 2015

Tecnologia, energia, popolazione, capacità di carico e la sesta grande estinzione...

Dalla pagina FB di Bodhi Paul Chefurka. Traduzione di MR



Steven A. LeBlanc, un archeologo del Museo Peabody di Harvard, ha scritto un libro significativo: Battaglie continue: perché combattiamo (2004). Come un altro archeologo controverso, Lawrence H. Keeley, di cui ho parlato in note precedenti, LeBlanc si arrovella per fare un po' di chiarezza sul mito persistente dello stile di vita pacifico dei cacciatori-raccoglitori in equilibrio ecologico col proprio ambiente. Per quanto possiamo dire sulla base dei ritrovamenti archeologici, scrive LeBlanc, le società umane hanno superato le loro risorse di base, denudato la terra, fatto estinguere altre specie con le quali condividevano il territorio, poi si sono spostate per fare la stessa cosa altrove. LeBlanc mostra che lo squilibrio ecologico è sempre stato la causa principale di lotte e guerre. “Il solo filo conduttore che ho trovato in tutta questa guerra... era che era correlata a persone che superano la capacità di carico della loro area. Lo squilibrio ecologico, credo, è la causa fondamentale della guerra”.

lunedì 19 ottobre 2015

Riscaldamento globale: quant'è esattamente il calore generato dall'attività umana?

Da “Resource Crisis”. Traduzione di MR



Spesso è difficile visualizzare quello che stiamo facendo al nostro pianeta. Ma un semplice calcolo mostra che l'effetto serra generato dai combustibili fossili può essere visto come l'equivalente di accendere più di un centinaio di stufette elettriche da 1kW per ogni essere umano sulla Terra. E non le possiamo spegnere!


Di Ugo Bardi

Se guardate il modo in cui i climatologi descrivono il riscaldamento globale vedrete che usano molto il termine “forzante”. Cioè, l'effetto aggiuntivo delle attività umane al naturale riscaldamento da parte della luce solare. Non tutte le forzanti aumentano le temperature, alcune tendono a ridurle; per esempio, il particolato atmosferico. Il risultato complessivo viene chiamato “disequilibrio” o “forzante netta”.

Potete pensare ad una forzante in termini di qualcuno che cerca di spostare una persona che non vuole muoversi. Se la persona che spinge è più forte, la forza netta risultante causerà che la persona viene spinta a muoversi. Nel caso del clima, le forzanti di riscaldamento sono più forti di quelle di raffreddamento e il risultato netto è un aumento della temperatura. Man mano che continuiamo ad emettere CO2 ed altri gas serra nell'atmosfera, la forzante serra aumenta, come vedete nella figura sotto (Hansen 2011).

venerdì 16 ottobre 2015

Il declino della produzione di petrolio negli Stati Uniti

Da “reuters”. Traduzione di MR (via Cristiano Bottone)

Di Dmitry Zhdannikov e Ron Bousso



Una pompa in funzione in un pozzo preso in affitto dalla Devon Energy Production Company vicino a Guthrie, Oklahoma nel settembre 2015.REUTERS/NICK OXFORD


Alcuni dirigenti petroliferi martedì hanno avvertito di un declino “drammatico” della produzione statunitense che potrebbe spianare la strada ad una futura impennata dei prezzi se la domanda di combustibili aumenta.

I delegati della conferenza Oil and Money a Londra, un incontro annuale di funzionari esperti di petrolio, hanno detto che i prezzi mondiali del petrolio sono stati troppo bassi per sostenere la produzione di petrolio da scisto, la maggiore aggiunta alla produzione mondiale dell'ultimo decennio.

mercoledì 14 ottobre 2015

RIVOLUZIONE E CONTRORIVOLUZIONE VERDE.

di Jacopo Simonetta

L’Expò si prepara a chiudere i battenti e con essa si chiude la festa mondiale dell’industria agro-alimentare nata da quella che fu chiamata “Rivoluzione Verde”.   Un momento idoneo per chiedersi cosa sia stata e come ha condizionato la storia dell’umanità.   Personalmente, ritengo infatti finora che se ne sia ampiamente sottovalutata l’importanza e per spiegarmi farò qualche passo indietro.

La prima vera “rivoluzione” che ha interessato la nostra specie non ha un nome e posso quindi battezzarla “Rivoluzione Narrativa”.   Consistette nello sviluppo di un linguaggio complesso e del pensiero simbolico.   Richiese probabilmente circa 50.000 anni e fece di noi l’unica specie capace di concepire e raccontare storie, avventure, miti, teorie scientifiche e quant’altro.

La seconda fu la ben nota “Rivoluzione Agricola” (o “Neolitica”) che iniziò circa 10 – 12.000 anni fa e prese molto, molto approssimativamente un paio di millenni.   Consistette nell’addomesticamento di alcune specie di piante ed animali e nel passaggio da un’economia basata sulla caccia e la raccolta dei prodotti spontanei ad un’economia basata sull’agricoltura e la pastorizia.
La terza fu la “Rivoluzione Industriale” che, in estrema sintesi, consistette nell’applicazione dell’energia fossile alle manifatture.   Nel giro di un secolo dominava il mondo e nel giro di due era divenuta un fenomeno globale.

La quarta è stata la “Rivoluzione Verde” e molti di noi sono abbastanza vecchi da averla vista di persona.   Sostanzialmente è consistita nell’applicazione dell’energia fossile alla produzione agricola, trasformandola in qualcosa di strutturalmente molto simile all’industria nel giro di una ventina d’anni appena.

Norman Borlaug
In effetti, i prodromi di questo fatale tornante risalgono al primo dopoguerra, quando in Europa e Stati Uniti si cominciarono ad usare in agricoltura i nitrati ed i trattori inizialmente prodotti a scopo militare.   Poi, negli anni ’30 e ’40, alcuni scienziati si preoccuparono di raccogliere in tutto il mondo piante eduli e di utilizzare le moderne conoscenze scientifiche per selezionare da queste delle nuove varietà ibride, molto più produttive.   Probabilmente i due più importanti furono l’americano Norman Borlaug ed il russo Nikolai Vavilov.   Il primo insignito del premio Nobel nel 1970, il secondo morto di fame in carcere per ordine di Stalin, nel 1943.
Nikolai Vavilov


Entrambi, e migliaia di altri fra ricercatori e tecnici, avevano lo scopo comune di “sfamare il mondo”, come già allora si diceva.   Ne avevano ben donde: nei venti anni precedenti milioni di persone erano morte di fame, soprattutto in Russia, India e Cina.    Certo molti fattori avevano concorso a determinare queste tragedie, ma solo un folle avrebbe potuto ignorare che il numero di bocche cominciava, già allora, a soverchiare le capacità produttive dei sistemi agricoli tradizionali in parecchie zone del mondo.

La Guerra mondiale fece passare perfino le carestie in secondo piano, malgrado abbia contribuito a crearne alcune delle peggiori.   Ma il flagello non si fermò con la fine delle ostilità e negli anni ‘60 e ’70 decine di milioni di persone continuarono a morire di fame:  soprattutto in Cina (1959 - 1961), in Congo (1960-61), In India (1965 – 66); In Etiopia (1973-74) ed in Bangladesh (1974).   Per citare solo le maggiori.

In quegli stessi anni cominciavano ad emergere i primi seri dubbi sulla sostenibilità dell’intero sistema economico mondiale e della stessa umanità contemporanea.   Le parole “sovrappopolazione”, “limiti alla crescita” e simili erano sulla bocca di tutti.   Lo spettro del reverendo Malthus aleggiava su tutto ciò che all'epoca si scriveva e si diceva, ma il lavoro cominciato trent'anni prima in Europa, Messico ed USA era oramai maturo per essere messo in pratica su scala globale.   Nel giro di pochi anni quella che fu definita la “modernizzazione” dell’agricoltura portò un aumento delle produzioni agricole ad ettaro compreso fra il doppio ed il triplo, mentre lo sviluppo dei trasporti su grandi distanze permise per la prima volta lo spostamento di migliaia di tonnellate di derrate dai luoghi dove ve n’era eccedenza a quelli dove erano carenti.

Di conseguenza, il numero di persone malnutrite diminuì dal 35% dell’umanità, alla metà degli anni ’60, a poco più del 15% nel 2005, mentre la popolazione mondiale raddoppiava di netto.   Nel frattempo, vere carestie colpirono solo il Sahel e la Nord Korea.   Lo spettro di Malthus fu sbaragliato dai fatti e l’idea che vi fossero dei limiti alle possibilità di sviluppo del genere umano fu archiviata sotto l’etichetta “cassandrate” fra l’entusiasmo generale.

Ma già dagli anni ’30, qualcuno aveva cominciato ad avere dei dubbi sugli effetti nel tempo di questo approccio.   Dubbi che l’esperienza non fece che confermare:

Le nuove varietà sono produttive solo se si utilizza l’intera gamma di prodotti fitosanitari e fertilizzanti previsti, altrimenti danno meno delle varietà antiche.   Le proprietà nutritive dei prodotti sono peggiorate, generando diffusi problemi di salute.   L’uso e l’abuso di concimi inorganici ha provocato la moltiplicazione dei parassiti, la destrutturazione dei suoli e l’inquinamento delle acque del mondo intero.   I pesticidi non riescono più a contenere il pullulamento di parassiti ed infestanti sempre più resistenti, mentre rendono tossici suoli ed acque, spedendo milioni di persone a cimitero non più per fame, ma per cancro.   L’irrigazione ha desertificato e salato vaste regioni, inaridito l’intero pianeta.   La meccanizzazione pesante ha fabbricato centinaia di milioni di disoccupati, mentre ha destrutturato ed eroso i suoli agricoli.    Il commercio internazionale ha creato rapporti di dipendenza sempre più perversi che non di rado sfociano in fenomeni di vera schiavitù o peggio; in ogni caso, nel gioco del mercato gli agricoltori sono risultati perdenti.   Intere civiltà contadine sono state spazzate via per fare spazio a distese desolate da una parte, favelas dall'altra.

Persone denutrite (dati FAO 2010).
 In numero assoluto a sinistra, in percentuale a destra.
E nel frattempo la quantità di gente malnutrita ha ripreso a salire rapidamente sia in numero assoluto che in percentuale, mentre a fronte di uno sforzo produttivo in crescita esponenziale, la produzione di cibo rimane sostanzialmente stazionaria.   Se vere carestie in corso non ce ne sono, sommosse per l’eccessivo prezzo del pane abbondano e, non di rado, contribuiscono a precipitare interi stati nel caos.   In rapporto alla popolazione, la disponibilità di cibo è dunque tornata a diminuire ed il fantasma di Malthus torna ad infestare le notti di quanti sono in grado di pensare al domani.

Dunque il bilancio è positivo o negativo?   Anziché esprimere un giudizio, è interessante gettare uno sguardo alla termodinamica dei sistemi produttivi.   Il successo della Rivoluzione Industriale è dipeso dalla sostituzione di risorse energetiche rinnovabili, ma disperse come flussi d’acqua e di aria, muscoli animali ed umani, con risorse energetiche infinitamente più concentrate, versatili ed economiche: carbone, ma soprattutto petrolio; secondariamente gas.

Con tecniche molto diverse, abbiamo fatto esattamente lo stesso con la Rivoluzione Verde: l’insieme di tecniche adottate ha permesso all'uomo di utilizzare l’energia fossile per produrre cibo.   Se, infatti, analizziamo il flusso di energia attraverso un agro-ecosistema pre-rivoluzione troviamo che vi è un’unica fonte di energia: il sole.   Anche il lavoro muscolare i uomini ed animali proveniva infatti dal cibo cresciuto sul podere grazie alla luce solare.

La medesima analisi fatta su di un agro-ecosistema industrializzato ci mostra che ogni Kcal di cibo che arriva nei piatti richiede la dissipazione di 10-15 Kcal di energia fossile.   Fino a 40, nel caso di filiere complesse come quella dei surgelati.
Da Gail Tverberg
In pratica, noi oggi mangiamo principalmente petrolio e, secondariamente, metano e rocce.   Tutto il resto serve a rendere questi materiali digeribili.   Ma sappiamo che il picco del greggio è alle nostre spalle (2005 per la precisione), mentre il picco di tutte le forme di energia è circa adesso.

  Dunque il flusso di energia fossile che ha permesso all'umanità di passare da 3 miliardi a quasi 8 sta rallentando e sempre di più lo farà negli anni a venire.   Cosa mangeremo?

In pratica, la Rivoluzione Verde ci ha permesso di barare, aumentando la capacità di carico del pianeta, ma solo per poche decine di anni, poi tornerà la normalità.   Il che presumibilmente significa un rapido ritorno sotto la soglia dei 3 miliardi e probabilmente meno.   A meno che…
Già da alcuni decenni sta maturando in molti ambienti qualcosa che si propone di essere una vera e propria “Controrivoluzione Verde”.   In estrema sintesi, l’idea e la pratica sono di abbandonare l’energia fossile con tutto l’armamentario chimico e meccanico dell’agricoltura contemporanea per sostituirlo con una vasta gamma di tecniche più o meno nuove che vanno dalla Biodinamica, alla Permacoltura, all'Orticoltura Sinergica e numerose altre.

Un vasto numero di esperienze e di studi confermano la validità di un simile approccio, perlomeno ad una scala aziendale o locale.   Se poi questi metodi siano in grado di alimentare le megalopoli del mondo resta da dimostrare, ma di sicuro ci sono ampi spazi per una loro molto maggiore diffusione e sviluppo.   Nelle intenzioni di chi le divulga c’è la certezza , o perlomeno la speranza, che in tal modo si possano nutrire gli 8 o 9 miliardi di persone prossime venture senza desertificare il Pianeta e senza sfruttare nuove forme di energia.

A ben vedere, delle quattro Rivoluzioni precedenti, solo le ultime due hanno comportato l’uso di una fonte supplementare di energia.   Le precedenti hanno invece ottenuto una maggiore efficienza nello sfruttamento di quello che già si usava.   Ora ci si propone, con buoni argomenti, di replicare l’impresa aumentando l’efficienza nello sfruttamento del sole, dei suoli e dell’acqua in misura tale da poter archiviare perfino il petrolio.   Possibile che si possa ottenere un risultato di così vasta portata?   Forse, ma ciò che mi stupisce è che nessuno si pone la questione di cosa succederebbe se quest’utopia diventasse realtà.

Senza Rivoluzione Narrativa gli umani sarebbero rimasti meno di un milione nel mondo.   Senza quella agricola saremmo rimasti intorno a 5-6 milioni.   Senza Rivoluzione Industriale saremmo rimasti meno di un miliardo sul tutto il Pianeta.   E senza Rivoluzione Verde saremo ancora 3 miliardi o forse un po’ meno.   Se davvero la “Rivoluzione Bio” avesse il successo sperato, non osserveremo forse lo stesso identico fenomeno avvenuto nei casi precedenti?   Aumento della disponibilità di cibo, quindi aumento della popolazione e nuova crisi ad un livello più alto di stress sul sistema planetario?
Tutte le popolazioni animali aumentano finquando il numero dei morti non eguaglia quello dei nati.   Finora, aumentare la disponibilità di cibo è servito ad aumentare il numero di bocche, rilanciando questo gioco terribile per un altro giro.   Alzando però la posta, rappresentata dalla percentuale di Biosfera e di umanità che dovranno morire per ristabilire l’equilibrio.
I fattori limitanti sono quella cosa odiosa che, uccidendo gli individui, garantiscono la sopravvivenza delle popolazioni e degli ecosistemi.

Ci sarebbe, in teoria, una scappatoia.   Sarebbe infatti possibile rimuovere un fattore limitante (ad es. la fame) senza conseguenze nefaste a condizione che ne subentri subito un altro che impedisca comunque alla popolazione di crescere.   Cioè esattamente quello che era stato prospettato, a suo tempo, dai programmatori della Rivoluzione Verde: aumentare la produzione di cibo era una soluzione A CONDIZIONE che, contemporaneamente, si riuscisse a stabilizzare la popolazione sui livelli di allora o poco più.

Altrimenti, fu detto, l’intera operazione si sarebbe risolta in un disastro di proporzioni inimmaginabili.   All'epoca si pensava di poterci arrivare tramite uno stretto controllo delle nascite, ma è andata diversamente.

Ora stiamo cercando di rilanciare alzando la posta.   Abbiamo una vasta gamma di tecniche che forse possono nutrire 8 o 9 miliardi di persone anche a fronte di una ridotta disponibilità di energia fossile. OK, ma se funzionasse, come eviteremo di diventare 10 o 12 miliardi?

Se non si risponde a questa domanda in maniera credibile e continuiamo a pensare in termini di massima produzione siamo magari dei bravi agricoltori, ma non stiamo facendo nessuna contro-rivoluzione.


martedì 13 ottobre 2015

L'ineluttabile irreversibilità del Progresso

di Bodhi Paul Chefurka
traduzione di Stefano Ceccarelli



La realtà del danno che stiamo infliggendo alle altre creature viventi, a noi stessi e al nostro pianeta sta diventando più evidente, a più persone, ogni giorno. Eppure, nonostante i più grandi sforzi di coloro che si sono destati di fronte alla incombente calamità, nulla sembra fare molta differenza. Perché si sta rivelando così difficile correggere i nostri errori e smascherare il nostro “progresso”?
Come vado dicendo in varie occasioni, sia che si guardi al solo livello delle istituzioni sociali umane, o che si prosegua guardando alla psicologia evolutiva o finanche alla termodinamica, come ho tentato di fare, la risposta sembra essere la stessa. I cicli di retroazione positiva che guidano la crescita umana sembrano contenere un meccanismo interno unidirezionale che impedisce loro di essere regolati.

Possiamo chiamarlo Trappola del Progresso, Circolo Vizioso, Determinismo Infrastrutturale, istinto di sopravvivenza, dissipazione termodinamica o Destino Manifesto, ciò è irrilevante. Tutte queste definizioni sono semplicemente diverse sembianze dello stesso fenomeno: l’irreversibilità. C’è una buona ragione per la quale la natura ha reso questo meccanismo unidirezionale così difficile da scardinare. Senza di esso, saremmo stati sbattuti fuori dal gioco dai concorrenti, e non saremmo qui oggi – nel bene e/o nel male.

Dei singoli individui possono talvolta sconfiggere questa unidirezionalità e ricostituire il proprio personale progresso, ma per quanto ne so i gruppi non possono fare altrettanto. Ciò che è peggio è che più persone vi sono in un gruppo sociale, più strettamente il meccanismo ci vincola alla ruota della crescita. Se guardiamo attentamente, possiamo vedere questo effetto nelle nostre comunità e in particolar modo nelle nostre nazioni. Quando poi il ‘gruppo’ è composto da 7,3 miliardi di persone, legate insieme dai moderni sistemi di comunicazione nel “villaggio globale” di Marshall McLuhan, il suo effetto è virtualmente inevitabile, eccetto che per un numero molto piccolo di individui. Per ironia, anche quei fortunati fuggitivi sono destinati in qualche misura ad essere grati ai frutti amari del moderno progresso. Ad esempio, provate a disconnettervi dalla rete senza avere un’ascia con voi!

So che molti non sono d’accordo con me su questo. Spero che avranno ragione, e che io possa alla fine essere visto solo come un duro vecchio cinico, piuttosto che come il realista che temo di essere.


domenica 11 ottobre 2015

Il paguro costretto a vivere in un tappo di dentifricio: sempre peggio l'inquinamento da plastica della Terra

Da “Daily Mail”. Traduzione di MR (via Population Matters)

  •  Un recente studio suggerisce che l'oceano contiene otto milioni di tonnellate di rifiuti
  •  E' abbastanza per riempire quattro borse della spesa ogni 30 cm di linea di costa sulla Terra
  •  L'immagine, presa a Cuba, è solo una di una serie di immagini scioccanti che mostrano la  portata dell'inquinamento da plastica sulla Terra


Di Ellie Zolfagharifard

Questo paguro senza casa è ricorso alluso di un tappo di dentifricio per proteggere il suo corpo. E' una scena straziante che rivela la dura realtà dell'inquinamento da plastica e di quello che sta facendo alle creature marine della Terra. Secondo stime recenti, l'oceano contiene otto milioni di tonnellate di rifiuti – abbastanza da riempire cinque borse della spesa ogni 30 cm di linea di costa sul pianeta.


Senza casa e disperato, questo paguro è ricorso all'uso di un tappo di dentifricio per proteggere il suo corpo. Quest'immagine è stata caricata dall'utente di Reddit Hscmidt dopo che la sua fidanzata ha individuato il piccolo paguro che si aggirava su una spiaggia a Cuba

L'immagine è stata caricata dall'utente di Reddit, Hscmidt, dopo che la sua fidanzata ha individuato il piccolo paguro che si aggirava su una spiaggia a Cuba. I paguri usano conchiglie usate come riparo e per dare ai loro corpi soffici una protezione in più dai predatori. I paguri hanno spesso la necessità di trovarsi nuovi ripari, di solito sotto forma di altre conchiglie, man mano che crescono. “All'inizio ho pensato che fosse carino, ma poi mi sono reso conto di cosa significhi realmente”, ha scritto un utente di Reddit riguardo all'immagine. 

sabato 10 ottobre 2015

Quello che la Exxon sapeva del cambiamento climatico

Da  “The New Yorker”. Traduzione di MR (via Skeptical Science)

Di Bill McKibben



Pompe di benzina Exxon e Mobil, New York 1979. Due anni prima, secondo un nuovo rapporto, gli scienziati della Exxon hanno detto alla società che il loro prodotto principale contribuiva al riscaldamento globale. Foto di Brian Alpert/Keystone/Hulton Archive/Getty

Mercoledì mattina, i giornalisti di InsideClimate News (ICN), un sito Web che ha vinto il Premio Pulitzer per i suoi servizi sulle perdite di petrolio, ha pubblicato la prima dispensa di una denuncia i più parti che apparirà nei prossimi mesi. I documenti che hanno raccolto e le interviste che hanno fatto agli impiegati in pensione ed ai funzionari mostrano che, già nel 1977, la Exxon (ora ExxonMobil, una delle società più grandi del pianeta) sapeva che il proprio prodotto principale avrebbe scaldato disastrosamente il pianeta. Ciò non ha impedito alla società di passare da allora decenni a organizzare le campagne di disinformazione e negazione che hanno rallentato  - forse fatalmente – la risposta del pianeta al riscaldamento globale.

giovedì 8 ottobre 2015

L'energia del capitale

Di Giancarlo Fiorito


Da circa 130 anni gli economisti hanno immaginato di rappresentare la produzione di beni e servizi con una funzione Y = f(x1, x2, …, xn) che mettesse in relazione i fattori di produzione (xi) o input, con il prodotto Y o output. Va anche detto che la rappresentazione del processo produttivo è stata pesantemente limitata, poiché delle funzioni molto semplici e con due soli input hanno significato molta rigidità e poco realismo della rappresentazione stessa1. Ma la matematica serviva a mettere chiarezza nei dibattiti, come scriveva Wicksteed nel 1894:

I use the mathematical form of statement, then, in the first instance, as a safeguard against unconscious assumptions, and as a reagent that will precipitate the assumptions held in solution in the verbiage of our ordinary disquisitions.


Figura 1 – La funzione di produzione nel processo economico

Nel 1927 l’economista Paul Douglas chiese al matematico Charles Cobb di trovare una funzione per mettere in relazione capitale e lavoro con la produzione inglese nel periodo 1889–1922. Ebbe successo: empiricamente fedele alla produzione reale - l’equazione “seguiva” i dati storici - e con due soli input (K, L) “miscelabili” a piacere, l’idea infondeva ottimismo. Così dal carbone estratto, ai frigoriferi assemblati, al PIL usando le ore-uomo (L) e una variabile che rappresenta scavatrici, macchinari, o il capitale aggregato (K) si spiega la produzione. E si fanno politiche…

Tra le principali criticità della teoria economica della produzione si trova l’elasticità, una misura conveniente per quantificare le reazioni tra input e output al variare di un elemento; un numero puro dato dal rapporto tra due variazioni relative: η = (∆y/∆x)•(x/y). L’elasticità risponde alla domanda “quanto varia y se x varia dell’1%?” Ad esempio, se aumenta l’IVA sui carburanti (per le “temute” clausole di salvaguardia, ad esempio), cambiano i litri acquistati dagli automobilisti? Se la quantità non diminuisce all’aumentare del prezzo indotto dall’aumento delle tasse si dice che la domanda è inelastica.

L’elasticità si calcola con i prezzi e/o con le quantità di input ed output e tra gli input. In quest’ultimo caso si parla di elasticità di sostituzione (σ): quanto deve variare la quantità del fattore xi se il prezzo pxj del fattore xj sale dell’1% mantenendo il livello di produzione costante? Tutte le funzioni sopra, esclusa la translog, hanno elasticità di sostituzione fissa: 1 la Cobb-Douglas, 0 la Leontief e infinita la Lineare, constante la CES. Tutte condizioni irrealistiche.

A partire dagli anni ’70 nuove funzioni più complesse e flessibili, hanno risolto le rigidità dell’elasticità di sostituzione tra input, consentendo di aumentarne il numero.

Tabella 1 – Principali funzioni di produzione



Finalmente l’energia (E) e le materie prime (M) entravano nella funzione di produzione, anche se:

When Solow and Stiglitz sought to make the production function more realistic by adding in natural resources, they did it in a manner that economist Georgescu-Roegen criticized as a "conjuring trick" that failed to address the laws of thermodynamics, since their variant allows capital and labour to be infinitely substituted for natural resources. Neither Solow nor Stiglitz addressed his criticism, despite an invitation to do so in the September 1997 issue of the journal Ecological Economics (Wiki.)

Storicamente, la sostituzione tra input è stata motivo di forte disaccordo tra economisti di scuola neoclassica ed ecologisti: mentre i primi credono nella sostituzione, i secondi, pur in misura diversa,  propendono per una complementarietà. Il tema è cruciale. Infatti, secondo la teoria neoclassica della produzione, la dipendenza dell’economia da fonti non rinnovabili può essere risolta in due soli modi: la sostituzione tra input e col progresso tecnologico. La prima, rappresentata appunto da σ, quantifica la flessibilità di un sistema economico di produrre un output dato con diverse combinazioni di input; il progresso tecnologico si “cerca” introducendo variabili più o meno complicate atte a cogliere l’efficienza degli input, una sorta di “parsimonia” nell’uso di energia e materiali, ma anche di capitale e lavoro.

Dopo il primo shock petrolifero, importanti sviluppi hanno riguardato l’econometria sia teorica che applicata, le serie storiche degli input, fino alle nuove formule per l’elasticità, atte a quantificare la possibilità di modificare la composizione di K, L, E, M. Diverse formulazioni dell’Elasticità di sostituzione (Allen, Cross-price, Morishima ecc.) appaiono in centinaia di articoli scientifici per quantificare la flessibilità nell’uso degli input in diversi settori e in una miriade di paesi. La domanda di fondo rimane: gli input si cambiano a piacimento oppure esistono delle rigidità? (Aggiungerei, indipendentemente da sindacati, Jobs Act, ecc.)

Purtroppo per i sindacati (e molte altre persone), da molti studi empirici spesso risulta possibile rimpiazzare uomini con macchine, ma, purtroppo per industria e finanza, si è trovato anche che spesso vige una difficile sostituzione tra capitale ed energia. L’energia è necessaria – complementare - al capitale: se il prezzo dell’energia aumenta, la quantità di capitale cala e se la quantità di capitale diminuisce cala il PIL. Così accade spesso e questo sta accadendo dal 2008. Sembra banale, ma non è solo l’economia che ha bisogno di energia, ma più precisamente il capitale. In ogni caso, che il processo economico, secondo modelli ed ipotesi proprie della teoria economica sviluppata dagli economisti neoclassici (“liberisti” si direbbe oggi),  non possa fare a meno di energia a basso costo è un’esplicita e poco (ri)conosciuta ammissione di rigidità e fragilità del sistema economico: ci vuole energia abbondante per fare (e far funzionare) le macchine.

A questo punto è doveroso ricordare come, nonostante la scienza economica ammetta i suoi limiti nel rappresentare precisamente il processo economico, spesso, dei risultati empirici “parlanti” (a meno rapida confutazione) permeano in profondità nella politica (l’influenza dei “tecnici”), condizionando le scelte di strategia internazionale. Basti pensare al ruolo assunto del concetto di “produttività”, che oggi comporta la generale convinzione della necessità di ottenere una totale flessibilità salariale.

Riprendendo un po’ la storia, credo sia importante ricordare (e riconoscere) il merito dello sviluppo della funzione di produzione in “forme funzionali libere” a due economisti agrari, Earl Heady e John Dillon, le cui ricerche su nuove funzioni atte a rappresentare la produzione agricola e di bestiame, basate sugli sviluppi in serie di Taylor includevano sia la Translog che la Lineare Generalizzata così denominate rispettivamente da Christensen, Jorgenson e Lau e Diewert oltre dieci anni dopo2.

Usando i dati EU-KLEMS abbiamo stimato una funzione di tipo translog per Francia, Germania, Italia, Giappone, UK e USA sul periodo 1970-2005 per il settore manifatturiero. Dai risultati emerge una generale complementarietà tra E e K, come si vede dal Grafico 1. Un’elasticità di sostituzione negativa infatti significa complementarietà tra i fattori di produzione.

Grafico 1 – Elasticità di sostituzione capitale-energia in alcuni paesi (1970-2005)


I risultati sono tanto più “allarmanti” considerando che i dati si fermano al 2005, prima del balzo del petrolio del 2008, cui è seguita una crisi economica mondiale che dura tuttora: una prova empirica del “bisogno” di energia a buon mercato dell’attuale sistema economico. Un sistema economico che sembra dematerializzarsi, divenire agile, pulito, leggero e – insomma – sostenibile, ma che, guardando alla produzione in senso stretto, senza energia “si ferma” un po’ come le nostre automobili. E’ una rivincita dell’eretico Georgescu-Roegen, il pessimista, che sottolineava insistentemente come fosse la termodinamica a condizionare il processo economico. E le inefficienze dei motori a scoppio, delle ruote di gomma su un asfalto rugoso per muovere persone e cose avessero un costo (sempre meno) nascosto che l’EROEI ci insegna a contabilizzare (vedi Pardi).


Grafico 2 – La produzione con input complementari
Quando l’economia ha sviluppato un modello della produzione che includesse energia e materiali ha trovato che erano necessari. E’ una conferma, credo importante, del bisogno di cambiare la struttura produttiva, disincentivando le produzioni energivore, investendo in infrastrutture ferroviarie e ciclabili, tassando il carbonio e riorientando l’agricoltura verso una produzione di prossimità, organica e di stagione.

L’alternativa semplicemente non c’è, o meglio è rappresentata dalla crescita (e collasso) del debito che impedisce, comunque, la crescita ed il benessere delle persone, come spiega bene Gail Tverberg.

  • Questo contributo è una sintesi divulgativa dell’articolo Capital-energy substitution in manufacturing for seven OECD countries: learning about potential effects of climate policy and peak oil pubblicato sulla rivista Energy Efficiency. 





1 Per una storia delle prime funzioni di produzione vedi Humphrey.  
2 Vedi Heady E. e Dillon, J. Agricultural Production Functions, Iowa University Press, 1962 e  Modeling and measuring natural resource substitution, Edited by Ernst R. Berndt and Barry C. Field, MIT Press, 1980.

Wicksteed, P. H. (1894). An essay on the co-ordination of the laws of distribution. London: Macmillan & Co.

martedì 6 ottobre 2015

Amministratori della Terra: un ruolo per la specie umana?

Da “Resource Crisis”. Traduzione di MR

Di Ugo Bardi





Questo post è stato ispirato da un incontro tenutosi a Firenze sul tema dell'enciclica sul clima del Papa e, in particolare, dalla presentazione fatta da Padre Bernardo, priore della chiesa di San Miniato. Ho pensato alla relazione fra religione e ambiente per un po' e, come commento, riproduco più sotto un testo che ho scritto sull'interpretazione di un'antico mito sumero che, secondo me, descrive un'antica catastrofe ecologica, non diversa da quella che abbiamo di fronte oggigiorno. Molti elementi dell'antica religione sumera sono sopravvissuti attraverso i millenni e sono ancora fra noi. In particolare il concetto che gli esseri umani hanno di potere e responsabilità: sono qua per servire la creazione, non per usarla per i loro scopi. (h/t Antonella Giachetti)


Quando ho iniziato la mia carriera nella ricerca scientifica, difficilmente potevo immaginare che il Papa Cattolico avrebbe, un giorno, insegnato agli scienziati (e non solo a loro) come fare il proprio lavoro. Eppure, sembra che siamo arrivati esattamente a questo punto.

I tentativi fatti finora di risolvere il dibattito sui vari disastri che incombono su di noi (e che noi stessi abbiamo creato) non hanno portato a niente. Per quanti decenni abbiamo cercato di giungere ad un accordo per evitare il disastro del cambiamento climatico? Ora stiamo ponendo le nostre speranze residue sula conferenza di Parigi di quest'anno, ma pensate davvero che un gruppo di politici e burocrati vestiti in abiti grigi sarà in grado di salvare il pianeta?

lunedì 5 ottobre 2015

Ancora sull’EROEI della guerra.

di Jacopo Simonetta

Evoluzione della produzione di idrocarburi liquidi
in energia nettaecondo WEO 2014
In un recente post  Turiel ha affrontato un tema particolarmente scabroso: l’EROEI della guerra moderna.

La guerra è un fenomeno molto complesso che accompagna la nostra specie fin dal suo apparire e forse anche prima, visto che si verificano guerre fra i nostri cugini scimpanzé. Sull'argomento sono stati versati ettolitri di inchiostro, oltre che di sangue, ma l’aspetto evocato a Turiel è originale ed interessante.

Tralasciando tutti gli altri aspetti delle questione, si concentra infatti sull'efficienza energetica dei conflitti, un aspetto indagato da pochi.  Non  pretende, ovviamente, che questo sia l’aspetto principale del problema, ma fa presente che aumenterà di rilevanza in un mondo in cui la disponibilità di energia è destinata fatalmente a diminuire.       Anzi, forse sta già diminuendo.  


Turiel discute il problema dei costi energetici della guerra sulla base di una sua classificazione dei conflitti, basata sullo scopo dei medesimi, specificando che molte altre classificazioni sono possibili.    In questo post, mi propongo quindi di cogliere il suo invito ed affrontare a mia volta la questione, proponendo una classificazione basata invece sui mezzi impiegati.   Penso possa essere utile per rilanciare la discussione avviata da Turiel.

Elencherò le categorie per ordine decrescente di dissipazione di energia.

1 - Convenzionale ad alta intensità simmetrica.   Lo scontro diretto di due stati di potenza circa pari che impiegano aviazione, mezzi corazzati e tutto l'arsenale moderno.   Un esempio relativamente recente è stata la guerra Iran -Iraq.   Abbiamo visto come i danni non si limitino alla zona del fronte, ma riguardino l’intero sistema-paese: infrastrutture, economia, popolazione e molto altro.   Nel caso in cui fossero coinvolte grandi potenze (USA, Russia e Cina), l’entità delle distruzioni sarebbe immensa.

2 - Convenzionale ad alta intensità asimmetrica.   Lo scontro diretto fra stati di potenza assai diversa.    Un esempio tipico è stata la guerra del Kouwait (1990).    Il risultato è scontato e rapido, ma con una dissipazione di energia che Luca Mercalli ha provato a quantificare, sia pure in maniera molto, molto prudente.  Il livello di distruzione dello sconfitto è molto elevato e difficilmente recuperabile nel contesto attuale e futuro.

3 - Non convenzionale alta intensità asimmetrica.   Conflitti che oppongono stati che impiegano mezzi e metodi convenzionali ad organizzazioni che impiegano tecniche di guerriglia e terrorismo (imboscate, attentati, ecc.).   Spesso proseguono indefinitamente per l’impossibilità di entrambi i contendenti ad eliminare l’avversario per ragioni militari o politiche.  Il caso più lampante di questo tipo è la guerra isrelo-palestinese.   Sono pochi i casi in cui una guerra di questo tipo si è conclusa con una vittoria netta.   In Afghanistan vinsero i Mujaheddin dopo molti anni di guerra, ma questo non risolse minimamente la crisi del paese.   A Shri Lanka il governo schiacciò definitivamente la rivolta Tamil massacrando in pochi giorni circa 20.000 persone, indiscriminatamente miliziani, civili ed ostaggi.

4 - Convenzionale a bassa intensità simmetrica.   Forze regolari od assimilabili si affrontano con armi leggere ed artiglieria da campagna (indicativamente fino a 155 mm).   Il ricorso a carri armati, aviazione ed elicotteri da combattimento è marginale.   Di solito sono cose che vanno molto per le lunghe o perché nessuna delle parti ha i mezzi per prevalere, o perché ci sono motivi politici per mantenere basso il livello di scontro.   Un esempio attuale è il conflitto ucraino, fatte salve le due occasioni in cui l’intervento diretto di reparti corazzati russi ha elevato il livello di scontro, ma solo per il tempo strettamente necessario ad ottenere un risultato strategico importante.

5 - Convenzionale a bassa intensità asimmetrica.   Situazione simile a quella vista per il caso 2 (Convenzionale ad alta intensità asimmetrica).   Anche in questo caso la disparità di forze rende scontato il risultato, ma con un molto minore impiego di mezzi pesanti ed aviazione, quindi con una minore dissipazione di energia e un più basso livello di distruzione.   Esempi recenti sono stati la guerra Russia-Georgia e l’offensiva NATO contro la Serbia.

6 - Non convenzionale ad alta intensità simmetrica.   Si tratta di conflitti che oppongono organizzazioni paramilitari o stati di pari forza, ma che non impiegano i mezzi della guerra classica, bensì quelli della guerriglia e del terrorismo.   Comportano l’uso di armi leggere ed esplosivo, autobonba, eccetera.    Il consumo di energia è limitato, mentre il numero di morti ed il livello di distruzione può essere elevato.   Soprattutto generano grandi flussi di fuggiaschi.   Casi attuali di questo genere sono gli scontri fra milizie avverse in Siria e Iraq; negli anni ’90 è avvenuto nella ex-Jugoslavia.

7 - Non convenzionale bassa intensità asimmetrica.   Oppone forze di tipo convenzionale a milizie, ma con un limitato ricorso a mezzi energivori anche da parte del contendente più forte.    Visti i limitati mezzi a disposizione, solitamente sono situazioni che si trascinano molto a lungo.   Un caso particolare di questo tipo è stata la guerra tra Marocco e Fronte Polisario.   Teoricamente ancora in corso, è stata vinta dal Marocco grazie ad un uso offensivo delle fortificazioni campali (i famigerati “muri”) ed al modificarsi del contesto internazionale.

8 - Non convenzionale bassa intensità simmetrica.   Simile al caso 7, ma con minori consumi per la scarsezza delle forze in campo.    Sono di questo tipo molti conflitti civili di cui neanche si parla sulla stampa internazionale.   Possono ciò nondimeno generare notevoli flussi di fuggiaschi, come nel caso di molti conflitti africani (Somalia, Congo, Ruanda, Sudan, fra gli altri).   I mezzi impiegati sono perlopiù armi leggere, autobomba e camionette armate, ma anche armi bianche.

E’ evidente che i conflitti ad alta intensità sono quelli che comportano la massima dissipazione di energia.    Molto indicativamente, i mezzi corazzati consumano 2-3 litri al chilometro, i blindati circa la metà; un aereo da combattimento circa 15.000 litri di cherosene all'ora.    A questo si devono aggiungere l’energia contenuta nelle munizioni, i consumi dell’immenso apparato logistico necessario per mantenere operative truppe corazzate ed aviazione.   Per confronto, i pick-up armati che costituiscono il nerbo della motorizzazione nei conflitti a bassa intensità consumano circa 10 litri per 100 km.

A ciò dobbiamo aggiungere la dissipazione dell’energia incorporata negli oggetti e negli edifici che vengono danneggiati, oltre che l’informazione (intesa in senso termodinamico) che viene distrutta.

E’ ovvio che da tutti questi punti di vista, i consumi di energia sono tanto maggiori, quanto più imponenti i mezzi impiegati.   E’ vero che il contendente che dispone di una maggiore energia e tecnologia ha perdite inferiori, ma solo nel caso di guerre asimmetriche.

Inoltre, nel contesto energetico del prossimo futuro, diventerà sempre più difficile, per non dire impossibile, rimediare ai danni operati dalla guerra.    Un esempio a mio avviso lampante, è il confronto fra la guerra del Kuwait (1990) e quella Irachena (2003).   A seguito della prima, l’industria petrolifera dell’emirato, sistematicamente distrutta dalle truppe in fuga di Saddam Hussein, fu ricostruita in meno di un anno.   A seguito della seconda, i danni prodotti dall'embargo e dalla guerra sono stati riparati solo in parte, malgrado gli enormi interessi coinvolti.   Certo hanno giocato anche altri fattori, ma i pianificatori politici dovrebbero cominciare a pensare alle infrastrutture industriali attuali come a dei beni non sostituibili, in caso di danni gravi.

A titolo di esempio dei livelli di dissipazione energetica oggi impiegati nei conflitti, vorrei citare il rapporto dell’ONU che ha tirato le somme della guerra che ha opposto Israele ad Hamas nel 2014. In 51 giorni le forze israeliane hanno condotto 6000 missioni aeree e sparato 50.000 colpi da terra.   Con ciò hanno demolito una trentina di tunnel usati dal nemico e numerose installazioni e depositi, ma niente che non possa essere sostituito con gli appoggi internazionali di cui ad oggi gode Hamas che, comunque, continua a controllare la striscia di Gaza.   Almeno in parte irreparabili risultano invece i danni fatti alle abitazioni ed alle installazioni civili anche se, bisogna dire, a Gaza la distinzione fra i siti militari e civili è particolarmente fluida.  I morti palestinesi sono stati pare 2.200, di cui circa metà civili. Da parte loro, i miliziani Hamas hanno ucciso nei combattimenti casa per casa 67 militari israeliani. Contemporaneamente, hanno sparato sulle città nemiche 4.881 razzi di vario calibro e 1.753 colpi di mortaio per uccidere 7 civili e fare dei buchi per terra.

La domanda è:  A parte ogni considerazione etica e l’evidente follia politica di entrambi i contendenti, a che scopo tutto ciò?   E poi: Per quanto tempo pensiamo di poterci ancora permettere questo genere di lussi?   Mai come oggi, la guerra è stata un pessimo affare per tutti coloro che vi partecipano.

Rimangono due tipi di guerra, al momento solo potenziali: la guerra nucleare e la guerra batteriologica.   La prima è solo un’ipotesi, ma consistente vista l’ampiezza e la diffusione degli arsenali.   In un’ipotetica guerra di questo tipo, l’impiego di energia da parte delle truppe sarebbe relativamente limitato, visto che i mezzi impiegati sarebbero solo gli ordigni in questione ed i loro vettori.   Viceversa, vi sarebbe un’immensa dissipazione di energia incorporata nelle città e nelle infrastrutture distrutte che, in qualunque futuro prevedibile, nessuno sarebbe mai più in grado di ricostruire.

La guerra batteriologia non dovrebbe essere neppure una possibilità, visto che ad oggi nessuna forza armata dispone di questo tipo di armi.   Ma sono molti i paesi che dispongono della possibilità di costruirne.   Una possibilità anche in futuro, visto che si tratta di armi relativamente economiche da realizzare ed usare.

Da un punto di vista strettamente funzionale, è paradossale che, in un mondo sempre più strettamente minacciato da sovrappopolazione e carenza energetica, le maggiori potenze abbiano deciso di mantenere le armi convenzionali (che diverranno progressivamente inutilizzabili) e quelle nucleari (in grado di distruggere definitivamente ogni economia avanzata).  Mentre, hanno rinunciato alle armi batteriologiche che uccidono le persone senza danneggiare strutture e risorse.   In altre parole, l’unico modo razionale di condurre una guerra oggi e nel prossimo futuro.

E, per favore, non ci dicano che è stato per motivi etici.   Sarebbe molto difficile dimostrare che diffondere epidemia sia meno crudele che bombardare o decapitare la gente.   Semmai il contrario poiché, passata un'epidemia per quanto terribile, i sopravvissuti si ritrovano in un mondo sostanzialmente integro a non in mezzo a macerie, magari radioattive.



Un'istantanea che, mi pare, descriva meglio di mille parole il risultato assurdo,
oltre che inumano, degli attuali metodi di guerra.


domenica 4 ottobre 2015

Una recensione del libro di Ugo Bardi "I limiti dello sviluppo rivisitati"


Dal blog di Badiale e Tringali

Pubblico una recensione ad un libro di Ugo Bardi del 2011, che solo recentemente ho avuto l'occasione di leggere.
(M.B.)



Ugo Bardi. The Limits to Growth Revisited, Springer 2011

Ugo Bardi insegna presso il Dipartimento di Chimica dell'Università di Firenze. Gestisce il blog“effetto risorse” e da tempo si occupa dei problemi del “picco del petrolio”. In questo libro ripercorre la storia del famoso testo commissionato dal Club di Roma a un gruppo di studiosi del MIT e uscito nel 1972 con il titolo “The Limits to Growth” (d'ora in poi LTG; in italiano “I Limiti dello Sviluppo”).
Bardi ricostruisce il percorso intellettuale che ha portato al libro, ma soprattutto fa la storia dei dibattiti successivi alla sua pubblicazione. Si tratta di una storia piuttosto interessante, che si può sostanzialmente dividere in tre fasi: un grande successo iniziale, seguito da aspre critiche che portarono, a partire più o meno dagli anni 90, all'oscuramento delle tematiche e delle impostazioni teoriche sviluppate nel testo, e infine una ripresa di interesse in tempi recenti. 

La rassegna di questi dibattiti, svolta da Bardi in vari capitoli del libro, è assai accurata, ed è finalizzata a far meglio comprendere al lettore, proprio grazie al confronto con i critici di LTG, il senso delle tesi fondamentali del libro. Bardi spazza subito via dal tavolo le critiche basate su fondamentali equivoci. Le più note in questo senso sono quelle che accusano lo studio di grossolani errori di previsione. Bardi risponde facilmente che LTG presentava non “una previsione” ma una serie di “scenari”, cioè differenti insiemi di previsioni dipendenti dalle possibili azioni umane nel futuro.Le cosiddette “previsioni sbagliate” su cui ponevano l'attenzione i critici di LTG erano ottenute semplicemente pescando alcuni dati dentro ad uno di questi scenari, dimenticando che appunto si trattava solo di uno scenario possibile fra i tanti delineati dallo studio stesso. Questa osservazione ci porta ad un altro tipo di discussione critica, più avveduta, che Bardi prende in considerazione. 

L'obiezione potrebbe infatti essere non più quella dell'erroneità di LTG, ma quella della sua inutilità: se in sostanza non fa previsioni precise, perché offre piuttosto una “batteria” di possibili previsioni, dipendenti dalle azioni umane, a che serve? La risposta di Bardi, che mi sembra condivisibile, è che lo studio non intendeva fornire previsioni numeriche precise sull'evoluzione dell'economia mondiale nei prossimi decenni (compito probabilmente impossibile), ma piuttosto individuare alcune linee di tendenza generali, che potessero indicare alle forze politiche e sociali prospettive abbastanza chiare per indirizzare l'azione politica. Bardi rileva infatti che, anche senza offrire previsioni numericamente precise, i vari “scenari” concordano nel mostrare che un certo tipo qualitativo di evoluzione appare sostanzialmente inevitabile, in mancanza di radicali cambiamenti della nostra organizzazione politica ed economica. In (quasi) tutti gli scenari delineati in LTG appare un crollo della produzione e della popolazione dopo un periodo di crescita simile all'attuale. Il “quasi” indica appunto che tale crollo si può evitare solo in uno scenario che preveda un deciso intervento umano di correzione degli attuali squilibri.

Abbiamo detto che in tempi recenti si è notata una ripresa di interesse nei confronti di LTG, collegata fra l'altro alle successive versioni dello studio (l'ultima è del 2004, ed è apparsa in italiano nel 2006 col titolo “I nuovi limiti dello sviluppo”). Naturalmente, questo non significa che le conclusioni dello studio siano accettate da tutti gli studiosi, o anche solo dalla maggioranza. Il dibattito infatti prosegue. Ma almeno, stando al resoconto di Bardi, sembra che siano superate le incomprensioni che hanno segnato, e un po', diciamo, “rovinato” il dibattito nei decenni precedenti. Secondo la ricostruzione di Bardi, oggi si tende a riconoscere che l'andamento effettivo delle variabili considerate in LTG, nei quattro decenni seguiti alla prima pubblicazione, ha seguito nella sostanza l'andamento previsto in uno degli scenari delineati all'epoca. Quindi l'obiezione sul fatto che le previsioni di LTG fossero “sbagliate” sembra per il momento aver perso efficacia. La discussione si è spostata su altri piani, a mio parere più interessanti. Si tratta dei temi discussi nei capitoli 8 e 9 del libro, dedicati allo stato attuale del dibattiti sull'esaurimento delle risorse minerali e sul ruolo della tecnologia. La tesi più significativa, fra coloro che rifiutano le conclusioni di LTG, è infatti quella che sostiene il ruolo centrale dello sviluppo tecnologico, e ritiene che il difetto fondamentale di LTG sia appunto quello di non tenerne conto. Secondo i sostenitori di questa tesi, lo sviluppo tecnologico permetterà di sfruttare altre risorse (energetiche, minerarie) quando le attuali saranno esaurite. In questo senso si può sostenere la tesi, che suona certo paradossale alle orecchie di chi si sia formato su testi come LTG, secondo la quale “le risorse naturali sono infinite”. Essa deve appunto essere intesa nel senso che lo sviluppo scientifico e tecnologico metterà a disposizione sempre nuove risorse quando quelle usuali saranno esaurite. Per capirci, il petrolio non era una risorsa energetica nel primo Ottocento: lo è diventato quando è stata sviluppata la tecnologia che permetteva di sfruttarlo. Allo stesso modo, nuove tecnologie permetteranno di far diventare “risorse” aspetti della realtà naturale che attualmente non lo sono. 

È ragionevole questa prospettiva? Bardi la discute a partire dal problema delle risorse minerarie non energetiche, come i metalli. Come è noto, essi sono diffusi ovunque, ma solo in pochi luoghi hanno la concentrazione sufficiente per rendere redditizia l'estrazione. Una possibile versione della tesi che stiamo discutendo, quella cioè che “le risorse naturali sono infinite”, potrebbe allora consistere nell'argomentare che l'esaurimento delle miniere redditizie porterà all'aumento del prezzo dei metalli, e questo a sviluppi tecnologici che renderanno redditizia l'estrazione del minerale a concentrazioni minori di quelle attualmente necessarie, cosicché la risorsa in questione tornerà ad essere estratta.

Il problema di questo schema, nota però Bardi, è quello dell'energia necessaria per l'estrazione, al diminuire della concentrazione. Il rapporto fra queste due grandezze è grossomodo quello della proporzionalità inversa: cioè, se il minerale da estrarre presenta una concentrazione dimezzata, occorre il doppio dell'energia, se la concentrazione si riduce ad un terzo occorre il triplo dell'energia, e così via. Se questa relazione si mantiene stabile al variare delle tecnologie, appare chiaro che l'estrazione di minerali da depositi sempre più poveri troverà un limite nella disponibilità dell'energia (e nei suoi costi). Il problema si sposta allora, appunto, alla disponibilità dell'energia. Il punto essenziale sta nel fatto che per l'estrazione di risorse energetiche sembrano valere principi analoghi. Il concetto di EROEI (Energy Return On Energy Invested), detto anche EROI, serve appunto a precisare questo punto. Esso è definito come il rapporto fra l'energia ottenuta in un processo di estrazione (di petrolio, per esempio) e l'energia consumata per l'estrazione. Indica cioè il “guadagno energetico” del processo di estrazione. Ovviamente, l'estrazione ha senso solo quando l'EROEI è maggiore di uno. Non è facile il calcolo preciso dell'EROEI, come nota lo stesso Bardi altrove, ma sembra comunque che la tendenza sia verso una sua lenta diminuzione, almeno per quella che è attualmente la principale fonte energetica, il petrolio (a questo proposito di veda anche il capitolo 6, pagg. 77-85, del libro di di Luca Pardi “Il paese degli elefanti”, edizioni LUCE, in particolare a pag.81). Questa lenta diminuzione pare essere avvenuta nonostante gli indubbi progressi tecnologici nelle tecniche di estrazione del petrolio. Tali sviluppi, cioè, possono sì rendere possibile estrarre petrolio “non convenzionale” come lo shale oil, ma non invertono la tendenza alla diminuzione dell'EROEI. In questo modo sembra che ci stiamo avvicinando, indipendentemente dagli sviluppi tecnologici, al punto in cui per estrarre un barile di petrolio occorrerà consumare un barile di petrolio, e a quel punto ovviamente il petrolio, per quanto abbondante possa ancora essere, cesserà di essere una risorsa energetica. 

Se queste tendenze venissero confermate in futuro, sarebbe lecito un certo scetticismo nei confronti della tesi che “le risorse naturali sono infinite”. Verrebbe invece corroborata la tesi generale che la nostra organizzazione sociale sta entrando in una fase di “rendimenti decrescenti”, rendendo quindi necessaria una “grande transizione” ad una diversa organizzazione sociale. Queste tesi sono ormai sostenute da diverse voci: per un inquadramento generale, si veda il libro di Mauro Bonaiuti “La grande transizione”, Bollati Boringhieri 2013. Si tratta di temi rispetto ai quali c'è urgente bisogno di un dibattito razionale serio e approfondito e per chi voglia continuare, anche da posizioni diverse, nella pratica del dibattito razionale, il testo di Bardi è senz'altro di grande aiuto.